
In tanti luoghi dello Zibaldone, Leopardi offre riflessioni linguistiche su quelli che oggi chiameremmo da una parte aspetti socio-culturali di una lingua, e dall’altra scelte di politica linguistica.
da un articolo di Matteo Cazzato
LE PAROLE E LE COSE, 3 maggio 2023
Immagine: lo Zibaldone di Giacomo Leopardi, da sololibri.net (alcune sue frasi si trovano alla fine di questo articolo; i brani più lunghi sono sul sito da cui è tratto, e accorciato, l’articolo)
Un idioma deve mantenere tutto il patrimonio e la bellezza della sua tradizione, soprattutto per la poesia, la cultura e il discorso storico, ma per quanto riguarda la società civile e le attività ad essa legate in modo più diretto, occorre saper guardare oltre, aprirsi e accogliere le novità, anche quando vengono dall’estero. Leopardi polemizzò sempre verso gli atteggiamenti puristi, sostenendo una lingua adattiva in grado di arricchirsi e mescolare a seconda delle circostanze diverse componenti.[1]
Ci sono eccessi, quelli che al tempo si potevano chiamare – secondo l’abitudine greca – barbarismi. Questi vanno condannati ma secondo ragione, come specifica il poeta, e certo una multa non rispetta questo parametro. Poi ci sono altri casi in cui le parole straniere vanno accolte, e il criterio per valutare non può essere solo il tornaconto economico, per vendersi bene sul mercato, indice semmai di altrettanta stupida banalità. … appare problematico allora l’atteggiamento alla base di una proposta di legge come quella fatta nei mesi scorsi al Parlamento da esponenti di FdI.

Non voglio ricordare gli usi – anche ridicoli – di termini stranieri da parte della stessa maggioranza che propone di multare i forestierismi. Per questo sono sufficienti i video comici in rete. E non bastano certo le dichiarazioni del signor Rampelli circa l’utilità economica di dire “Made in Italy”, mentre in altri casi da lui stabiliti non è utile e non si deve usare terminologia straniera… Tra l’altro, il fatto che gli stessi rappresentanti del governo in più occasioni si siano serviti di parole straniere, anche a sproposito, rende palese la contraddizione, mostra come quest’uso sia una realtà e bisogna prenderne atto.
Quello che occorre fare è capire come gestirla, e interrogarsi in merito alla bontà di un disegno di legge a dir poco bizzarro e ancor di più incompetente, fin dalle dichiarazioni fatte in aula dallo stesso Rampelli: «Per dispenser si intende dispensatore… Non si capisce perché il dispensatore di liquido igienizzante per le mani debba essere chiamato ‘dispenser’». Ora, è vero che il termine dispensatore riporta etimologicamente al valore base di “che dispensa”, e perciò potrebbe risultare applicabile a ogni cosa o persona che compie questa azione. … Ogni vocabolario, al lemma dispensatore riporta i significati di “largitore, ordinatore, tesoriere o amministratore”, riferendosi dunque a persone, non a cose.
Anche il vocabolario della Crusca, che dà la spiegazione “che dispensa”, negli esempi fa riferimento solo a persone. … i vocabolari italiani al lemma dispenser – ormai acquisito – precisano il valore etimologico riferendosi al termine proprio dispensatore, nel valore di “che dispensa”. Ma è il valore etimologico per l’appunto, e il Devoto-Oli specifica che l’accostamento a dispensatore è valido prima del 1963.[2] Ho i miei dubbi sul fatto che il signor Rampelli abbia controllato tutti questi dati prima delle sue dichiarazioni, ma anche fosse, c’è un’ostinata visione passatista oltre che imprecisa, che non riconosce lo stesso mutamento linguistico e si rifiuta di dare importanza a l’uso come criterio-guida. Se entrato in un edificio pubblico chiedessi «Scusi, c’è un dispensatore?», dubito che qualcuno mi capirebbe. Oltretutto la formula «dispensatore di liquido igienizzante»… è antieconomica nell’enunciazione, e in linguistica il principio di economia (miglior risultato funzionale nella comunicazione col minimo sforzo) resta fondamentale per l’evoluzione naturale delle lingue.
Ma in questa proposta di legge non c’è nulla di naturale. Il vero equivalente comunicativo del termine inglese potrebbe essere distributore (dispositivo che provvede alla distribuzione di fluido o di sostanze), e va benissimo se si sceglie di utilizzarlo.[3] Ma è anche vero che se nell’uso comune il distributore è la macchinetta dove prendere snacks, caffé e altre bevande, dispenser per indicare un oggetto preciso e distinto non mi sembra così grave. Ma evidentemente la maggioranza di governo vuole intervenire – pur impreparata – anche se in parlamento dovrebbe occuparsi di problemi ben più rilevanti.

Gli articoli del disegno di legge, in modo non chiaro riguardo i singoli ambiti e le diverse sfumature di applicazione, impongono l’uso esclusivo della lingua italiana in tutta la sfera pubblica. Ma la nostra Costituzione tutela le minoranze linguistiche, e il territorio nazionale vede numerosi dialetti e anche altre lingue (ad esempio francese, tedesco, sloveno); per tradizione storica o vicinanza geografica ad altri stati, e tutte queste situazioni non possono vedere l’imposizione di una lingua sull’altra, in nessun senso. I parlanti di quelle aree spesso sono abituati ad una comunicazione nell’altra lingua, e se l’italiano deve sì essere presente, negli atti pubblici e nei documenti ufficiali anche l’altra lingua deve essere garantita alla pari per non creare difficoltà ai cittadini. E anche l’inglese, che pure non rientra nelle minoranze linguistiche della penisola, va garantito, soprattutto negli ambiti a carattere internazionale, per i bandi, altrimenti ci si isola con gravi conseguenze.

La normativa proposta recita in particolare all’art. 6: «Negli istituti scolastici di ogni ordine e grado e nelle università pubbliche italiane, le offerte formative che non sono specificamente rivolte all’apprendimento delle lingue straniere devono essere in lingua italiana». Questo dettato non è chiaro perché non fa capire come la legge si regolerà in determinati contesti.
… Nelle aule universitarie italiane non solo i corsi di lingua sono svolti – come naturale – nella lingua di studio, ma anche i corsi mirati all’apprendimento della letteratura e civiltà straniere in molti casi vengono tenuti nell’idioma relativo. Questo non capita all’estero e chi studia la storia della letteratura o la civiltà italiane segue quasi solo corsi tenuti nella sua lingua. […]
Si tratta di un valore aggiunto di molti nostri atenei, perché il percorso risulta più formativo per gli studenti: studiare in un’altra lingua consente di confrontarsi con forme di organizzazione del pensiero e del lavoro differenti. Come si regolerà su questi vari aspetti la legge secondo gli esponenti di FdI?
Senza considerare il fatto che l’apertura verso l’estero, la volontà di attrarre studenti e ricercatori in Italia per soggiorni o vere e proprie opportunità di lavoro, sono gli obbiettivi che dovremmo porci come sistema paese. Ma questa prospettiva si può attuare solo in condizioni comunicative favorevoli, con la disponibilità a far coesistere più lingue…
Se uno straniero viene in Italia perché studia materie umanistiche è anche giusto pensare che conosca o sia interessato ad apprendere l’italiano […]. Chi studia all’estero queste materie non è tenuto a conoscere la lingua italiana, ma nel nostro paese potrebbe comunque trovare studiosi validissimi con cui collaborare. Le cose però diventano difficili se tutte le attività devono essere svolte solo in italiano.
Se ci spostiamo nel campo medico e scientifico, la circolazione di persone verrebbe ostacolata ancora di più da una scelta di questo tipo. Non si deve assolutamente perdere il patrimonio linguistico italiano in questi settori, sarebbe un danno irreparabile: un medico o un fisico devono saper comunicare i loro studi nella loro lingua, e quando ci sono manuali ben fatti in lingua italiana sarebbe sbagliato ignorarli. Ma spesso le conoscenze di queste materie sono veicolate dall’inglese, oggi, come in passato dal latino.

[…] Le lingue evolvono incessantemente e così i loro rapporti reciproci, in base a dinamiche socio-culturali che poco alla volta preparano il terreno per nuovi assetti comunicativi. Attualmente assistiamo ad una situazione che si è prodotta nell’arco dell’ultimo secolo, e che ha dato sulla base di certi fattori una posizione privilegiata all’inglese. In passato le cose erano diverse, e altre lingue hanno occupato quella posizione, in un certo periodo anche l’italiano. Ma forme di nostalgia nazionalistica sono fuori luogo, e non si può avere l’arroganza infondata di agire su questi fenomeni per legge. […] Se vogliamo che l’italiano mantenga un suo ruolo importante e un uso vivo e attivo a livello sociale, da una parte bisogna permettere alla lingua di innovarsi (e imposizioni restrittive di ogni tipo alla fine sarebbero più controproducenti che altro), dall’altra gli investimenti del paese devono mirare a fare dell’Italia un riferimento attrattivo e valido.
Accettare di lavorare anche in un’altra lingua, comunque, non significa rinunciare alla propria. Nelle università, ad esempio, una soluzione potrebbe essere quella di avere in parallelo corsi in lingua italiana e corsi in lingue straniere, affinché l’offerta risulti più accattivante sia per chi da fuori vuole venire a studiare in Italia, sia per gli studenti italiani motivati a fare il loro percorso in un certo modo, con libertà di scelta.

Nessuno nega che ci sia un uso eccessivo e viziato di anglicismi in contesti dove non sarebbero necessari: sono dovuti a mode e impoverimento lessicale della cittadinanza. Ma gli usi linguistici, per loro natura, non sono disciplinabili a norma di legge. […] …questo governo sembra vedere la prima e unica risposta nel creare nuovi reati per ciò che a loro non piace, inasprire pene, senza riflettere sui fenomeni e eventualmente cercare soluzioni più strutturali e complete.
La valorizzazione della lingua e la sua tutela contro gli eccessivi forestierismi sono operazioni giuste e meritorie, ma quando vengono portate avanti da chi è competente, senza fini politici. In Italia l’Accademia della Crusca svolge questo ruolo benissimo, attraverso la promozione e l’educazione. Questa è la strada giusta, senza rincorrere velleitarie ideologie puriste.
D’altronde la Crusca ha definito ridicola la proposta di legge, che rischia di vanificare gli sforzi messi in campo per promuovere la lingua italiana contro l’eccesso di anglicismi immotivati.[4] Una multa come strumento di educazione linguistica e culturale è un’idea senza alcun fondamento pedagogico, oltre che di buon senso. La soluzione davanti all’eccessivo uso di parole straniere non è un divieto, anche perché se si usano parole straniere vuol dire che bene o male le persone stanno assimilando anche un’altra lingua, e ciò è un fatto sempre positivo. Poi, come scelgono di servirsene è un altro conto: ricorrere alla lingua straniera quando è utile, oppure stupidamente farne uno status symbol da sfoggiare per essere alla moda. Ma certo la stupidità non può diventare un reato… In ogni caso, come ha riconosciuto tempo fa l’ex presidente della Crusca, «è meglio lasciare che la lingua vada da sola dove vuole, o meglio, dove la porta il consenso dei più, non foss’altro perché a guidare il dirigismo si candidano troppo sovente i più fanatici».[5]

La strada da percorrere è solo quella della scuola, incentivare la formazione di individui competenti e curiosi, dotati di spirito critico, e perciò consapevoli, perché da tutto ciò viene come conseguenza naturale una padronanza più solida della propria lingua, una maggior ricchezza di vocabolario, mentre una multa andrebbe solo a ridurlo, anche se in modo volontario e selettivo.
La strada educativa sembra però impossibile in un paese in cui non si ha alcuna intenzione di investire sull’università e la ricerca. Ma questo governo sembra volere un paese di soli produttori e consumatori, tanto che l’ultima proposta è quella del liceo del “Made in Italy” (alla faccia della multa per forestierismo nella sfera pubblica!), una scuola orientata al turismo e al commercio per promuovere i prodotti italiani nel mondo (in un mondo ampio e vario quanta autoreferenzialità!). A detta della presidente del consiglio durante il Vinitaly, questo sarebbe il “vero liceo”. Ma se vogliamo valorizzare e promuovere la nostra lingua, dovremmo anche conoscerla bene. La parola liceo viene dal nome della scuola ateniese di Aristotele, dove i giovani studiavano la filosofia per ricoprire una funzione intellettuale, esercitare spirito critico sulla realtà, e questo nei licei di oggi si ottiene sulla base di una conoscenza approfondita della realtà culturale, a partire dal nostro passato come momento imprescindibile, incluso quello classico.
Gli istituti tecnici e professionali sono importantissimi, scuole di grande valore sociale e umano – forse anche prima che economico – altamente formative, e non c’è nessuna graduatoria. Ma non sono licei, sono un’altra cosa e per questa loro diversità vanno valorizzati, a partire dalla terminologia. Le parole hanno il loro peso e il loro significato, evitiamo la confusione.

Una delle motivazioni addotte in seconda battuta per la proposta di legge è stato il diritto di comprensione da garantire nella gestione e nei servizi pubblici. Ma questa sembra più che altro una scusa, perché non sono certo le parole straniere il vero problema, quanto l’annosa questione del burocratese e del politichese, ossia la tendenza in ambito amministrativo e legislativo ad usare una lingua – in molti casi volutamente – confusa, contorta, oscura. Questo governo fin dai suoi primi atti ha fatto proposte di legge in cui lo stile è questo, con un’ambiguità forse cercata per poter impiegare la norma nel modo più comodo per il proprio interesse. Prima di pensare all’effetto di qualche parola inglese negli atti pubblici occorre pensare agli altri problemi, perché paradossalmente in certi casi proprio quei forestierismi – semmai con l’ausilio di un vocabolario – potrebbero rivelarsi l’unico appiglio per la comprensione di un testo per il resto fumoso.[6]

Quando si parla di parole straniere usate nella propria lingua siamo davanti al fenomeno del prestito linguistico, che non riguarda solo il presente ma l’intera storia di una lingua. Il vocabolario dell’italiano si è costruito su più componenti nel corso del tempo: lessico venuto direttamente dal latino, parole formate all’interno del sistema per derivazione o composizione, e infine i prestiti. La cosa interessante è che la distinzione non sempre è così semplice come si potrebbe pensare e «varie parole di origine latina sono entrate in italiano attraverso un’altra lingua».[7] Il vocabolario si costruisce per intrecci e contatti di culture, e ne reca testimonianza. In fenomeni di questo tipo intervenire per legge sarebbe stato ed è anche oggi un gesto insensato, che ignora programmaticamente la complessità culturale. Solo alcuni prestiti poi restano, perché altri forestierismi sono vere e proprie mode passeggere e dopo un po’ di tempo decadono da sé.
Tante parole che oggi usiamo normalmente in realtà sono frutto di un prestito avvenuto durante l’evoluzione storica della lingua.
Così, per gioco, prendiamo alcune parole, anche di attualità oggi perché legate a questioni all’ordine del giorno, per fare qualche esempio.
C’è un grande parlare di normative in ambito alimentare per quanto riguarda i nuovi alimenti e la carne sintetica, in difesa della nostra tradizione culinaria: la bistecca è in realtà una parola tutta inglese, beef-steak, arrivata nell’Ottocento e adattata nella forma, ma nella lingua italiana c’è anche la costoletta (termine a derivazione latina, ma giunto in italiano per il tramite francese di cotelette)…
La guerra ci accompagna da ormai un anno in modo ineludibile, e ogni giornale e telegiornale ne parla. L’italiano e tutte le lingue romanze hanno abbandonato, in seguito ai meccanismi innescati dalle invasioni germaniche medievali, il termine latino bellum, salvo recuperi dotti in forma di aggettivo, e si parla per l’appunto di guerra – cioè war – termine tutto straniero, dal germanico werra.
Se vogliamo considerare aspetti più belli e sempre presenti, prendiamo coraggio e gioia. La loro origine è latina certo, ma non arrivano in italiano da lì: entrano come prestiti durante il medioevo dal provenzale coratge e dal francese joie, quando l’italiano nella sua evoluzione autonoma avrebbe avuto solo core e gaudio.
Nel discutere le misure fiscali il problema costante è di chi evade, e dunque ruba soldi allo stato. Rubare in italiano viene etimologicamente dal germanico raubon.
Una parola diffusissima e semplice come ragazzo è stata ricondotta, dopo un dibattito complesso, alla voce araba raqqas, per indicare chi ha il compito di corriere o messaggero. E altri termini arabi che la nostra lingua ha preso in prestito sono quelli di alimenti che fanno parte della tradizione gastronomica nostrana, da difendere contro ogni attacco straniero (ma evidentemente è il frutto di contatti e incontri continui che si rispecchiano poi nella lingua): carciofo, melanzana, ma anche zucchero.[8]
[…]
In tutti i casi che abbiamo visto e che si potrebbero vedere, la parola straniera non è entrata senza motivo ma a seguito di dinamiche storiche e culturali – a livello alto o basso – che iniziano ad agire nella società, introducendo nuove realtà o nuove prospettive su realtà già presenti, apporti culturali che si sono poi depositati nella lingua, oltre che in usi e abitudini. In molti casi sono termini entrati già nel latino durante il Medioevo, e certo venivano considerati al tempo elementi barbari rispetto ad una purità presunta (e irreale, il latino aveva parole provenienti da altri sostrati). Ma senza questi contatti non ci sarebbero neanche le lingue romanze, e l’italiano. Le innovazioni prodotte da mutamenti e prestiti non possono assolutamente esser demonizzate, sono normali dinamiche storiche, sempre in atto.
… l’atteggiamento mostrato in sede normativa è discutibile, proprio perché – con buona pace dei nostri politici – non si riconosce che ogni lingua è un organismo evolutivo, non conservativo, e acquisisce anche materiali stranieri.

È innegabile, oggi ci sono molti anglicismi diffusi: dalla politica all’economia, nell’ottica globale il vocabolario sta accogliendo sempre più espressioni inglesi; in diversi settori scientifici la letteratura è sempre più in lingua inglese e anche nel linguaggio della vita quotidiana. […] Alla fine la scelta spetta al singolo, e se ci saranno persone che ricorreranno a sproposito ai forestierismi, ci saranno anche altri che avranno un atteggiamento di maggior equilibrio, ed è questo l’obbiettivo a cui mirare, nella vita privata come nel pubblico. Ad esempio negli articoli accademici, è giusto che i risultati del proprio studio siano in alcuni casi anche in lingua straniera, per ampliarne la diffusione, ma non bisogna smettere di valorizzare la ricerca nella nostra lingua, e allora occorre solo che ci sia misura. Quello che gli atenei potrebbero fare è fornire linee guida, indicazioni di massima, ma la questione in nessun campo può essere gestita per imposizione.
Una parola che oggi sta entrando nella nostra quotidianità come straniera, fra un secolo potrebbe essere parte effettiva dell’italiano, potrebbe anche venir stabilizzata nel suo aspetto morfologico, e arricchirà la lingua, come è già successo in passato. Non possiamo saperlo e non avrebbe senso arrestare possibili sviluppi.
… il prestito non va visto come un elemento negativo, rappresenta invece una possibilità di arricchimento, e occorre cautela nel gestire la presenza di forestierismi nella comunicazione dei parlanti. Le politiche linguistiche dovrebbero solo promuovere l’abitudine all’equilibrio fra le diverse componenti del vocabolario. La parola straniera non deve andare a sostituire qualcosa, ma affiancarsi al patrimonio già a disposizione della lingua, ampliando il vocabolario per offrire le possibili scelte. […]

Concludo ritornando al pensiero leopardiano, nella convinzione che «il posseder più lingue dona una certa maggior facilità e chiarezza di pensare seco stesso», perché «nessuna lingua ha forse tante parole e modi da corrispondere ed esprimere tutti gl’infiniti particolari del pensiero», e allora «trovata la parola in qualunque lingua, siccome ne sappiamo il significato chiaro e già noto per l’uso altrui, così la nostra idea ne prende chiarezza e stabilità e consistenza e ci rimane ben definita e fissa nella mente, e ben determinata e circoscritta». Tant’è che il poeta riconosce la sua stessa abitudine, a ricorrere nello stesso scritto in lingua italiana a parole straniere di varie lingue perché «rispondevano più precisamente alla cosa».
Se arrivano parole dall’estero è perché l’estero offre modelli per fenomeni e processi di grande impatto – pur se con dei difetti alle volte – nelle vite quotidiane di tutti. Preservare un’illusoria purezza porta all’isolamento. Bisogna guardare alle novità e su quei materiali costruire qualcosa di nuovo, formando prima lo spirito critico delle persone. Allora l’Italia diventerà modello per la nascita di nuove spinte culturali e tecnologiche, e si aprirà un nuovo ciclo: invece di concentrarci su come ostacolare l’ingresso di parole straniere, confrontiamoci con le altre realtà culturali e linguistiche e al tempo stesso cerchiamo di impegnarci per tornare a dare anche noi in prestito parole ad altre lingue, in ogni settore, come già è accaduto in passato.
[1] Per ogni aspetto della riflessione linguistica di Leopardi resta fondamentale punto di riferimento Stefano Gensini, Linguistica leopardiana, Bologna, Il Mulino, 1984. L’edizione usata per lo Zibaldone è quella uscita per Donzelli nel 2014 a cura di Fabiana Cacciapuoti.
[2] Rimando alla voce relativa nel Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, diretto da G. L. Beccaria, Torino, Einaudi, 2004.
[3] I dizionari inglesi alla voce dispenser danno traduzioni per i due significati: se si parla di persona dispensatore, ma se si parla di oggetti contenitore, distributore, dosatore. Per l’inglese abbiamo fatto riferimento al dizionario Ragazzini edito da Zanichelli, per l’italiano abbiamo usato quello Treccani, disponibile online, e poi il Devoto-Oli e l’etimologico Cortelazzo-Zolli.
[4] Si fa riferimento all’intervista rilasciata da Claudio Marazzini ad AdnKronos, https://www.adnkronos.com/lingua-italiana-la-crusca-multare-chi-usa-parole-straniere-ridicolo_5QkP7DMdlY4y5oVmJqCnfz.
[5] C. Marazzini, La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 430-431.
[7] Altro discorso è quello relativo alle sigle, ma indipendentemente dalla lingua il problema è la loro proliferazione eccessiva. Ma pensiamo ad alcuni esempi di grande diffusione. NATO rispetta la lingua d’origine, ed è a tutti comprensibile. Se dovessimo convertirla all’italiano verrebbe OTAN, come hanno fatto in francese e spagnolo, ma non mi sembra necessario. AIDS è ormai ben nota, e l’alternativa SIDA, pur proposta, non ha preso piede, così come nel caso di DNA e ADN. La difficoltà delle sigle non risiede nella lingua di riferimento, perché anche SIDA e ADN risultano poco chiare. Ciò che fa la differenza è la disponibilità da parte dei mezzi di comunicazione a fornire una spiegazione.
[8] Si rimanda ai volumi già menzionati per trovare molti altri esempi, e si invita come esperimento curioso a consultare in autonomia un dizionario etimologico, per scoprire in base ai propri interessi le varie parole che in realtà nella nostra lingua sono prestiti.
Caspiterina che articolo!!! Davvero esaustivo dove si denota anche tutta la confusione che un termine o l’altro può andare a creare. Complimenti 🌹👏
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È stato un lavoraccio perché l’ho dovuto tagliare di brutto cercando di rispettarne il senso.
Come forse avrai notato, ha anche un tag “corazzata Potëmkin”, che ho deciso di usare per gli articoli-malloppo (long form, come li chiamano gli anglosassoni), che possono risultare un po’ indigesti. Questo per dire che il tuo gradimento è dunque assai… gradito! 🙂
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…e più che meritato con tutto il lavoro che hai fatto 🥀👏🏻
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Grazie! 🙂
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Ma wow!
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Mi fa piacere che tu abbia gradito! 🙂
Ovviamente, di “farina del mio sacco” c’è solo il faticoso lavoro di editing per evitare che fosse lungo una Quaresima (e già così è per lettori “resistenti”!).
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Ho “resistito” fino alla fine. Merita!
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Grazie.
Malgrado la fatica (e la tentazione di liberarmi dei riferimenti alla politica, linguistica o meno, alla quale però non si poteva cedere), più di così non si poteva tagliare. Brava!
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Sono d’accordo con Nemesys.
Più che un articolo sembra una Tesi di Laurea 🎓 davvero mi complimento con te, non mancano note a piè di pagina.
L’articolo è più che esaustivo.
Mi domando come si possa impedire di ricorrere ad un “forestierismo” in una Società ormai da tantissimo tempo divenuta multietnica.
Potrei anche azzardare l’ipotesi che l’uso del termine dispenser sia un neologismo regalatoci, per così dire, dalla Pandemia, importato dalla stessa.
I dispenser esistevano anche prima, ma sappiamo bene da quando sono stati introdotti e “mutuati”. Non che prima non esistessero salviettine deumidificate o gel lavamani, tuttavia non se ne faceva un uso così “smodato” se vogliamo definirlo tale.
La traduzione stessa di un testo può rappresentare in una certa misura un tradire, non inteso, certamente, nel senso di tradimento comunemente inteso.
Dispensatori di consigli, all’uopo pare decidano loro se e come vadano introdotti o meno i termini stranieri.
Perfino la borsa, noto accessorio, per lo più, femminile, viene chiamata bag o city bag, eppure tutti capiscono.
Predicare bene e razzolare male….il discorso sarebbe lunghissimo.
Complimenti davvero!
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Grazie, ho anche più che dimezzato le note spostando tutti i riferimenti.
Come dici giustamente tu, dispenser si usava anche prima, anche solo per il sapone liquido per le mani e “altro”, quindi la pianterei di fare tante storie.
Io, pur non essendo una purista, credo che laddove c’è una parola italiana comoda comoda, pronta all’uso, si potrebbe fare lo sforzo di usarla.
Altri concetti nascono in inglese (che in fondo è una lingua idiomatica) e non sono traducibili se non a rischio di sembrare ridicoli e/o troppo oscuri e prolissi.
Sì, il discorso sarebbe lunghissimo. A me interessa molto perché ho fatto studi anche di Linguistica (e infatti ho scritto diversi post su questi temi), il che mi consente di non combinare troppi casini tagliando e modificando, ma è un lavoro faticoso.
Grazie, sono contenta che ti sia piaciuto!
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Mi è piaciuto moltissimo e lo credo bene quanto sia stato faticoso scriverlo, hai tutta la mia stima. Avendo fatto il Liceo Classico, tengo molto alla Lingua Italiana, che, come la Matematica, non è un’opinione.
Ho scelto io di farlo e lo rifarei per tutta la vita!
Buona serata!
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Voi mi date sempre un sacco di soddisfazione. Sembra proprio che gli articoli ve li spippettiate dall’inizio alla fine. Grazie
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Ho letto dalla prima all’ultima parola, tanto più che l’argomento è interessantissimo e per Leopardi ho un debole.
Mia nipote direbbe che ho un problema serio. Uno solo??? 😄
Quando fecero il film 🎥 al Cinema su di lui, interpretato dal bravissimo Elio Germano, durava tre ore, mi disse che era una palla incredibile ed io risposi che non vedevo l’ora di andarlo a vedere. Che vuoi, anche la diversità è ricchezza!
Grazie a te, buona serata
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Anche io sono stata spesso “presa in giro” per i filmoni che mi piacevano tanto e che per gli altri erano una palla! 😀
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Mia nipote mi ha sempre guardato come una bestia rara perché mi è sempre piaciuto studiare, mi piace ancora, ho presente che cosa significhi essere presa in giro, sei in buona compagnia! 😀😉
La sorella, più piccola di lei di poco più di un anno, è una macchina da guerra, mi fa paura 😱 per dirlo io!!! 😄😄😄
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Pensa che io mi sono iscritta a Lettere che avevo superato i quarant’anni!
Siamo decisamente in buona compagnia! 🙂
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Ti ho scritto un lungo commento perché un articolo come il tuo merita un serio ragionamento.
Non so se tu debba moderarlo o se sia finito in spam.
Complimenti, un articolo bellissimo e molto ben approfondito.
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Scusa, da tempo ho attivato la moderazione, ma a volte mi dimentico di guardare la pagina dei commenti (chiedo umilmente perdono!) o magari non ci sono. Sono mancata per un paio di giorni e sono tornata più morta che viva (ma felice). Mi godo il Reader con le vostre belle cosette ❤
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Figurati, non hai nulla di cui scusarti, non ho nulla da perdonarti. Sono contenta tu sia felice, ci tenevo a valorizzare un articolo così bello, non deve essere stato facile scriverlo.
Più che giusto che tu faccia come senti. Sono contenta ti siano piaciuti i nostri commenti ❤️
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Molto!
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Ne sono felice! ❤️
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Ti pare poco?
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Ecco, questo era finito in spam, ma cerco di guardarci sempre!
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Grazie!
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Ci mancherebbe. Mi dispiace perché già sono sempre in ritardo con la lettura e l’approvazione dei commenti, cosa che faccio per tutti tranne un tizio anonimo che mo’ mi ha stufato, se poi ci si aggiunge anche il controllo dello spam diventa un po’ spiacevole per chi ha commentato 😦
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Non ti preoccupare, sono cose che capitano e si sa che succede. Mi dispiace per il tizio anonimo che ti infastidisce.
Buona giornata 🌻
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Non è che proprio infastidisca lui. Mi infastidisce vedere quella pallina grigia con dentro l’omino bianco e la scritta “Anonimo”.
I commenti sono poi molto generici, e non so che farci 😀
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