‘Scoprire di far ridere è come scoprire di essere la figlia del re’

Con Monica Vitti è facile cadere nel cliché. Eppure è difficile trovare nel cinema italiano un’attrice più refrattaria allo stereotipo, alla tipizzazione, alla definizione univoca.

estratto (*) di un articolo di Gabriele Gimmelli
DOPPIOZERO, 3 febbraio 2022

Immagine: Desordre

[…]
Fuori dal cliché, per lo meno agli esordi, era senz’altro la sua fisicità. “Nel 1953, quando io ero in accademia, le attrici dovevano essere superdotate, anzi direi bellissime”. “Io non ero proprio adatta a quel cinema, né fisicamente, né moralmente. Avevo deciso di fare questo mestiere molto seriamente, con rigore”. Niente cinema, allora: solo teatro, da Molière a Shakespeare, allo stesso Tofano, “sbalordito”, ricordava lei stessa, del suo insolito “talento comico”. 

Insieme al fisico, la voce. “Che disastro! In accademia esisteva solo la voce di Gassman”, raccontava ancora Vitti; e le cose non sarebbero andate meglio al cinema, qualche tempo dopo: “Lì cominciarono i guai. Le voci usate per il cinema corrispondevano ai visi delle attrici dell’epoca”. Lei, con la sua voce roca e “sfiatata” (parole sue), viene chiamata a caratterizzare perlopiù personaggi di secondo piano, per quanto in film importanti. Insomma, il doppiaggio e le prime particine in film leggeri sembravano consegnare la primattrice di teatro “giovane, affermata e stimata” a un destino cinematografico da caratterista.

via DOPPIOZERO

La svolta avviene intorno al 1957: Michelangelo Antonioni la sceglie per doppiare la benzinaia Virginia (Dorian Gray) in Il grido. “Ha una bella nuca”, pare che le abbia detto il regista, fra un turno al leggio e l’altro, “dovrebbe fare del cinema”. “E di faccia, ci starebbe sempre il mio partner?”, ricordava d’aver ribattuto lei. “Fortunatamente avevo la faccia delle donne delle sue storie e le sue storie mi somigliavano”, ammetterà Vitti: “Così cominciò la mia grande avventura”.

L’avventura (1960), con la sua lavorazione tormentata ma entusiasmante, è appunto il primo, vero banco di prova della Vitti cinematografica. “Può essere anche la sintesi del mio lavoro fino a oggi”, avrebbe dichiarato in seguito. È il primo dei cinque film che l’attrice gira con Antonioni: seguiranno nel 1961 La notte, nel 1962 L’eclisse, nel 1964 Il deserto rosso e nel 1980, a mo’ di postilla, Il mistero di Oberwald.
Un sodalizio artistico e sentimentale che finirà per dar luogo a un altro cliché, quello della “musa dell’incomunicabilità”. È vero: per Antonioni, spiegava Vitti, gli attori sono soprattutto “degli ‘oggetti’ da usare”. E l’attrice, scrupolosa come sempre, si mette al servizio del progetto espressivo elaborato dal regista: abbandona le consuetudini teatrali, la voce un po’ impostata, si abitua all’assenza del pubblico come supporto ritmico ed emozionale.
Eppure basta guardarla in uno qualunque di questi film per capire come Vitti non è musa, né materiale di scena: semmai ne è il respiro, la punteggiatura. E il suo ingresso nel cinema italiano dell’epoca, con quella fisicità e quella voce, ha lo stesso impatto dirompente del personaggio di Claudia nel contesto arcaizzante della Sicilia raffigurata in una delle scene più famose dell’Avventura

Il successo al fianco di Antonioni le spalanca le porte della fama internazionale, ma rischia al tempo stesso di costringerla, malgrado la bravura e l’incontestabile preparazione tecnica, in un ruolo fin troppo determinato, talvolta rischiosamente sul filo dell’autoparodia involontaria: chissà se qualcuno ricorda ancora che all’epoca il “Mi fanno male i capelli” di Deserto rosso suscitò le ironie più o meno sguaiate di molta intellighenzia letteraria nostrana… 

via DOPPIOZERO

[…] Dopo una decina di parti più disimpegnate, toccherà a Mario Monicelli, grande reinventore di interpreti, di affidarle il primo vero ruolo da protagonista brillante in La ragazza con la pistola (1968). Un film che oggi può apparirci invecchiato e con troppe concessioni allo stereotipo (“Forse”, spiegava Monicelli, “perché allora sembrava un film moderno!”), ma che valse a Vitti il primo David di Donatello e col quale inaugurò di fatto una seconda carriera d’attrice. 

Nonostante l’attitudine naturale dimostrata fin dai tempi dell’accademia, il passaggio dal drammatico al comico le appariva tutt’altro che scontato. Se, come ricordava lei stessa, i comici maschi, i “colonnelli” della nostra commedia di costume (Sordi, Gassman, Tognazzi e Manfredi, più Mastroianni come eventuale rincalzo), avevano dei modelli a cui rifarsi, diverso era il caso delle attrici: “In Italia c’erano solo le bellissime e le caratteriste… Un’attrice che fosse fisicamente normale e giovane e che sapesse recitare e far ridere, non esisteva”.
Soltanto Franca Valeri, nel corso degli anni Cinquanta, era riuscita a riservarsi un ruolo come attrice e all’occorrenza autrice dei propri copioni, tenendo testa a mattatori del calibro di Sordi, De Sica e Peppino De Filippo; ma alla fine aveva sempre preferito dedicare le proprie energie al teatro, dov’è stata fino all’ultimo signora e padrona.

Vitti ha agito in modo diverso. Pur consapevole di addentrarsi in un terreno di fatto inesplorato per certi versi persino ostile, ha scelto ancora una volta di reinventarsi. “In Italia, l’educazione cattolica predica da sempre la mortificazione e ha avvilito il riso”, diceva: “A me piace enormemente far ridere la gente”. Peccato che il genere brillante per antonomasia del nostro cinema, la commedia di costume o “all’italiana”, si stesse avviando ormai verso il declino: non più acre e graffiante, ma sempre più corriva e compiacente. A dispetto di questi limiti, Vitti è comunque riuscita a ritagliare per sé alcune memorabili figure femminili e alcune fortunate caratterizzazioni.

Eclettica e proteiforme, Monica Vitti è stata una figura quasi ossimorica nel cinema italiano. Diceva che per interpretare un personaggio doveva amarlo, ma che all’occorrenza avrebbe potuto amare anche il personaggio di un assassino (“purché anche lui sia una vittima”, precisava). Preferiva interpretare una popolana, perché “si lascia mangiare dalle cose”, ma al tempo stesso l’attraevano i caratteri che nascondono il fuoco acceso sotto la cenere. Non le interessava essere una diva, “solo essere un’attrice, un’attrice drammatica”, ma poi ha raggiunto il grande successo popolare come interprete comica. Forse perché anche per lei, come per tante e tanti di noi, il riso è “ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza, alla malinconia della vita”

(*) L’articolo era uscito a ridosso della morte dell’attrice, perciò era un po’ prolisso.
Tra l’altro, tutto questo lavoraccio di taglia e cuci l’ho fatto solo dopo aver letto su un sito la frase che è nel titolo e che mi piace da morire.

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3 risposte a "‘Scoprire di far ridere è come scoprire di essere la figlia del re’"

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