
La logica sociale dell’ammissione ai prestigiosi e ricercatissimi atenei americani della Ivy League, che comprende le otto università private più elitarie.
da un articolo di Malcolm Gladwell
The New Yorker, 2 ottobre 2005
Illustrazione: Matt Blease


Ho mandato la domanda al college verso la fine dell’ultimo anno delle superiori.
A quei tempi, i residenti nell’Ontario ricevevano un solo foglio di carta con la lista delle università della provincia e dovevano indicare le loro preferenze, per poi inviarlo all’ufficio centrale per le ammissioni al college. In tutto, probabilmente dieci minuti. La mia scuola inviò i miei voti separatamente. Ricordo vagamente di aver riempito un modulo di altre due pagine con i miei interessi e le mie attività. Non c’erano punteggi per esami di ammissione perché in Canada non eravamo tenuti a farli. Non so se qualcuno mi abbia scritto una lettera di presentazione: di certo, non l’ho chiesta a nessuno. Perché avrei dovuto? Non stavo mica chiedendo di essere ammesso a un club privato…
Al primo posto della lista avevo indicato l’Università di Toronto, e mio padre un pomeriggio mi ci accompagnò. Girovagammo un po’ e visitammo le strutture residenziali che mi interessavano di più, poi mio padre si affacciò all’ufficio ammissioni, scambiò qualche parola con il direttore (credo per parlare brevemente delle mie capacità) e, dopo aver mangiato un gelato, entrai.
Nell’Ontario non c’era una rigida gerarchia tra i college: molti buoni, molti migliori e alcuni di prim’ordine, ma siccome tutti facevano parte dello stesso sistema pubblico e l’istruzione era la stessa ovunque (con un costo di circa un migliaio di dollari l’anno, a quel tempo) e una media di B al liceo garantiva l’iscrizione, non si aveva l’impressione che la scelta fosse così cruciale. Si trattava solo di decidere se andarci e, soprattutto, quanto seriamente considerare quell’esperienza. Ma quando incontrai per la prima volta qualcuno che era stato a Harvard rimasi disorientato.
Alla mia destra c’era quel ragazzo molto tipo Yale, con un vestito di flanella grigia… Si somigliano tutti, quei bastardi della Ivy League. Mio padre vuole mandarmi a Yale, o magari a Princeton, ma io giuro che non andrei in una di quelle università della Ivy League neanche in punto di morte, Dio ne scampi.
J. D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi 1961 (trad. it. Anna Monti)
Innanzitutto c’era una strana riluttanza a parlare del college. “Sei stato a Harvard?”, domandai. Mi ero appena trasferito negli Stati Uniti e non conoscevo le regole. ‘Non definirmi in base alla mia scuola’, sembravano voler dire, il che significava che in realtà potevo farlo. E, infatti, lo feci. Ovunque ci fosse un laureato a Harvard, ne spuntava un altro e iniziavano i racconti dei momenti vissuti insieme o degli interessi in comune. Una volta sono stato al matrimonio di un ex alunno sulla cinquantina e il testimone dello sposo parlava con lui dei tempi del college, come se non avessero potuto mai raggiungere nulla di più importante nei trent’anni trascorsi nel frattempo. Ma cos’è questa Harvard della quale gli americani parlano con tanta reverenza?


Nel 1905, il college di Harvard adottò i test del College Entrance Examination Board come criterio di valutazione principale per l’ammissione, il che significava praticamente che ogni studente con buoni risultati all’ultimo anno della scuola superiore, e che poteva permettersi un college privato, aveva la possibilità di entrare. Nel 1908, le matricole erano per il 7% ebree, per il 9% cattoliche e per il 45% provenienti dalle scuole superiori private.
Come il sociologo Jerome Karabel ha scritto in The Chosen, la sua straordinaria storia del processo di ammissione a Harvard, Yale e Princeton, quello spirito meritocratico andò in crisi. L’ammissione degli ebrei aumentò moltissimo e, nel 1922, erano diventati un quinto delle matricole di Harvard. L’amministrazione e gli ex allievi erano indignati. Si pensava che gli ebrei fossero avidi, dalla mentalità ristretta e che pensassero solo a ottenere buoni voti. A. Lawrence Lowell, il preside di Harvard negli anni ’20, dichiarò che troppi ebrei avrebbero distrutto la scuola: “… perché allontanano i Gentili e, dopo che i Gentili se ne sono andati, se ne vanno anche loro”.

La parte difficile, tuttavia, doveva ancora arrivare. Nel complesso il livello accademico degli ebrei era superiore a quello di tutti gli altri. La prima idea di Lowell – un tetto che limitasse l’ammissione degli ebrei al 15% degli studenti – fu pesantemente criticata. Lowell cercò di limitare il numero di borse di studio concesse agli studenti ebrei e cercò di attrarre studenti provenienti dalle scuole private dell’ovest, dove c’erano meno ebrei. Ma nessuna strategia funzionò. Alla fine, Lowell e i suoi omologhi di Yale e Princeton capirono che se una definizione di merito basata sulla bravura accademica portava ad avere il tipo sbagliato di studente, la soluzione era quella di cambiare la definizione di merito. Karabel ritiene che quello fu il momento in cui la storia e la natura della Ivy League presero una piega diversa.

Gli atenei della Ivy League sono le otto più prestigiose ed elitarie università private degli Stati Uniti.
I criteri per essere ammessi sono voti alti alle superiori e punteggi eccellenti ai test di ingresso. Per assicurarsi l’accesso a queste università elitarie che permettono di costruire relazioni con la futura classe dirigente, i genitori ricchi iscrivono i figli sin da bambini in scuole private d’eccellenza che aprono la strada verso questi college. Naturalmente ci sono anche le borse di studio e aiuti finanziari per i meritevoli meno abbienti e le minoranze, ma tra gli iscritti questi restano numeri marginali.
Fonte: Corriere della Sera
Gli uffici per le ammissioni di Harvard iniziarono a interessarsi alla vita privata dei candidati, raccogliendo informazioni sul “carattere” dei candidati tramite “persone che li conoscevano bene”, così diventò obbligatoria una lettera di presentazione. Harvard Iniziò a chiedere ai candidati una fotografia e degli elaborati scritti personali per dimostrare la loro attitudine al comando, e di elencare le loro attività extracurricolari. “Dall’autunno del 1922”, scrive Karabel, “i candidati dovevano rispondere a domande su ‘razza e colore’, ‘orientamento religioso’, ‘nome da nubile della madre’, ‘luogo di nascita del padre’, ecc.
Da Princeton andarono a visitare i maggiori collegi per valutare potenziali candidati, attribuendo loro un voto da 1 a 4, dove uno era “soggetto molto desiderabile e apparentemente eccellente sotto ogni punto di vista” e 4 “non desiderabile dal punto di vista caratteriale e, quindi, da escludere, a prescindere dai risultati degli eventuali test di ammissione”.
Il colloquio diretto divenne una componente chiave per l’ammissione, dice Karabel, allo scopo di identificare con sicurezza gli ‘indesiderabili’ e di valutare indicatori sottili ma significativi sulle origini e l’educazione, come il modo di parlare e di vestirsi, il portamento e l’aspetto fisico. Nel 1933, quando terminò l’incarico di Lowell, la percentuale degli ebrei a Harvard era scesa al 15%.
Se questo nuovo sistema di ammissione suona familiare è perché essenzialmente è lo stesso usato fino ad oggi dalla Ivy League. Secondo Karabel, Harvard, Yale e Princeton non hanno abbandonato i loro criteri dopo la crisi: li hanno istituzionalizzati.
Dal 1953, Arthur Howe, Jr. passò dieci anni come direttore delle ammissioni a Yale, e Karabel descrive così la situazione in quel periodo:
Il comitato per le ammissioni considerava con particolare entusiasmo manifestazioni di “mascolinità”. Un ragazzo con capacità accademiche piuttosto mediocri veniva ammesso perché “apparentemente aveva qualcosa di maschile e segni distintivi che superavano sia i colloqui con gli ex alunni che quelli con lo staff”. Un altro candidato, ammesso nonostante i suoi risultati scolastici “mediocri in confronto a quelli di molti altri”, veniva scelto al posto di un altro con risultati scolastici e dei test molto migliori. A Yale davano così tanta importanza all’aspetto degli studenti che, fino al 1965, il modulo usato per i colloqui conteneva un elenco di caratteristiche fisiche.
A Harvard, in quel periodo, Wilbur Bender, decano responsabile per le iscrizioni, aveva una preferenza per “il ragazzo con alcuni interessi e capacità atletiche, il ragazzo con vigore, coordinazione ed eleganza fisica”. Secondo Karabel, credeva che se Harvard avesse continuato ad andar male sul campo da football, questo avrebbe inciso sulla reputazione della scuola come posto “senza spirito di appartenenza, pochi bravi ragazzi e senza una vita sana e sociale”, per non parlare di un “eccesso di ‘checche’, ‘esteti decadenti’ e ‘gente pretenziosa e sofisticata’”. Bender si concentrò sul miglioramento delle tecniche di ammissione all’ateneo con la valutazione degli aspetti “intangibili” e, in particolare, sulla “capacità di rilevare tendenze omosessuali e gravi problemi psichiatrici”.
Alla fine degli anni ’60, il sistema di ammissioni di Harvard si era trasformato in una serie di complessi algoritmi. I candidati iniziarono a essere suddivisi in categorie, a seconda della loro origine geografica. Le informazioni ottenute nei colloqui, dalle lettere di presentazione e dagli elaborati degli studenti venivano quindi valutate con un punteggio da 1 a 6, tenendo conto di quattro aspetti: personale, accademico, extracurricolare e atletico. I risultati accademici erano soltanto uno degli aspetti, quindi il valore delle capacità intellettuali veniva ulteriormente diluito. Quelle atletiche non rientravano nella categoria “extracurriculari” ma erano una categoria a sé, il che spiega perché, anche ora, gli atleti reclutati ottengono un voto di ammissione alle Ivy di ben due volte superiore a quello di altri studenti, a prescindere dalla valutazione scolastica che mediamente è di oltre cento punti inferiore. La categoria più importante è il misterioso indice di qualità “personali”. Secondo l’analisi della stessa Harvard, la valutazione personale era – per l’ammissione – un indicatore migliore rispetto alla valutazione accademica. Il 98% di quelli con un voto pari o inferiore a 4 nella categoria personale in quegli anni veniva rifiutato, a fronte di un 2,5% di chi otteneva un 1 nella stessa categoria. Quando l’Ufficio per i Diritti Civili del Dipartimento federale dell’istruzione fece dei controlli a Harvard negli anni ’80, trovò note scritte a mano sui margini delle cartelle dei vari candidati, tipo “questa giovane donna potrebbe essere una delle iscritte più brillanti ma ci sono molti riferimenti alla timidezza”, o “sembra un po’ superficiale”, e cose anche peggiori. […]

In questa ossessione americana per l’Ivy League c’è la convinzione che scuole come Harvard offrano una formazione sociale e intellettuale simile a quella del corpo dei Marine (docenti brillanti, compagni motivati, un diploma con un nome prestigioso) e vantaggi che nessuna università statale locale può offrire. E gli studi dimostrano che a parità di valutazione e di voti, tra chi viene da Harvard e chi invece da un college meno selettivo, il primo guadagnerà molto di più entro dieci o vent’anni.
Tre anni fa, gli economisti Alan Krueger e Stacy Dale hanno proprio pubblicato uno studio dove si legge:
A livello ipotetico, prendiamo la University of Pennsylvania e la Penn State, tra le quali si orienta la scelta di molti studenti”, diceva Krueger. “Una è dell’Ivy League, l’altra è statale. Penn è molto più selettiva: se si paragonano gli studenti di queste due scuole, quelli che frequentano la Penn hanno redditi più alti. Ma se osserviamo quelli che sono ammessi a entrambe le scuole, alcuni dei quali scelgono la Penn e altri la Penn State, non sembra essere molto importante essere ammessi alla scuola più selettiva. Ora, pensereste che lo studente più ambizioso sia quello che sceglie la Penn, e che quelli che scelgono la Penn State potrebbero essere meno sicuri delle proprie capacità o venire da famiglie meno abbienti, e che questo si traduca in peggiori risultati in futuro. Ma non è così.
Secondo Krueger c’è un’eccezione: gli studenti con la fascia di reddito più bassa sembrano trarre vantaggio dalla formazione in un college dell’Ivy League. Ma per la maggior parte, la regola generale sembra essere che una persona intelligente e che lavora sodo sarà favorita in futuro a prescindere dalla scuola che ha frequentato. Alla Penn si costruisce una buona rete di relazioni, ma la Penn State è sufficientemente grande e variegata da garantire lo stesso obiettivo.
“Capisco perché le famiglie siano realmente preoccupate”, aggiungeva Krueger. “Il laureato medio di un’ottima scuola guadagna quasi 120.000 dollari all’anno, mentre se viene da una scuola moderatamente selettiva ne guadagna 90.000. La differenza è enorme, e spiega gli sforzi dei genitori, ma penso che attribuiscano alla scuola molto di quello che invece è lo studente a portare con sé quando viene ammesso”.
Dopo Bender, il decano responsabile delle ammissioni a Harvard fu Fred Glimp, che, come dice Karabel, era particolarmente preoccupato dagli scarsi risultati accademici, ma credeva in ciò che poi Krueger e Dale avrebbero confermato: che il carattere e le prestazioni di un corso accademico sono determinati in gran parte al momento dell’ammissione; che se vuoi dei laureati vincenti, devi iscrivere dei vincenti; che se vuoi che “il quarto mediocre e felice” riesca, devi trovare candidati capaci di riuscire in quella fascia. Karabel ha proprio ragione, allora, a vedere negli anni ’20 il momento che ha definito la moderna Ivy League. Nel campo dell’istruzione elitaria, tu sei chi ammetti, e quando Harvard cambiò le politiche di ammissione, cambiò anche la scuola: in meglio o in peggio?
Subito dopo la crisi ebraica, Harvard, Yale e Princeton decisero di adottare quello che potrebbe essere chiamato l’approccio dei “laureati migliori“. L’École Normale Supérieure in Francia, così come l’Università di Tokyo e la maggior parte delle scuole elitarie cercano gli studenti migliori, cioè i candidati che avranno i migliori risultati accademici durante il periodo universitario. Le scuole dell’Ivy League giustificarono l’attenzione al carattere e alla personalità, tuttavia, sostenendo che cercavano studenti che avrebbero avuto maggior successo dopo l’università. Cercavano dei leader, e nell’Ivy League si pensava che la leadership non fosse solo questione di bravura accademica. Per Wilbur Bender, se si lasciavano entrare solo quelli bravi, alla fine ne sarebbero usciti solo topi da biblioteca e scienziati da laboratorio, e sopra un livello ragionevolmente buono di capacità mentale, la sola cosa importate per avere un ruolo e dare un contributo alla società era il grado di forza interiore personale dell’individuo.
[…]

Nel libro del 2001 The Game of Life, James L. Shulman e William Bowen (un ex preside di Princeton) hanno condotto un’analisi molto estesa su un punto che è diventato molto controverso nelle ammissioni: lo speciale trattamento riservato agli atleti reclutati dalle università selettive, soprattutto da quelle dell’Ivy League. Gli autori hanno dimostrato che gli atleti hanno un grande, e crescente, vantaggio su tutti gli altri. Allo stesso tempo, i loro risultati ai test sono di molto inferiori a quelli dei compagni.
Tuttavia, Shulman e Bowen presentano una scoperta che definiscono “sorprendente”: gli atleti maschi, malgrado punteggi e voti inferiori, e il fatto che molti di loro appartengano a minoranze e abbiano background socioeconomici più sfavorevoli degli altri studenti, finiscono per guadagnare molto di più dei compagni. Sembra che gli atleti abbiano molte più possibilità di entrare nel settore assai remunerativo dei servizi finanziari, dove fanno strada grazie alla loro personalità e alle loro abilità psicologiche. Bowen e Shulman scrivono che tra gli aspetti trainanti ci possono essere un forte desiderio di successo e un’incrollabile determinazione nel raggiungere l’obiettivo, che sia vincere la prossima partita o chiudere una vendita. Inoltre, gli atleti sembrano essere più capaci di lavorare duramente per lunghi periodi di tempo, per esempio per soddisfare il carico di lavoro che pesa sui giovani. Inoltre, gli atleti sono più competitivi, socievoli e fiduciosi nelle proprie capacità di lavorare in gruppo. […]
I responsabili per le ammissioni alle Ivy League sono nel business del marchio di lusso, e The Chosen, alla fine, è la conferma di come i gestori dei brand a Cambridge, New Haven e Princeton hanno svolto il loro lavoro negli ultimi settantacinque anni. Quando negli anni ’20 Harvard cercava di capire quanti ebrei ci fossero nel campus, l’ufficio ammissioni frugava nei registri degli studenti e assegnava a ciascuno sospettato di essere ebreo delle sigle: j1 (decisamente ebreo) , j2 (prove che facevano pensare a uno studente ebreo) o j3 (solo una possibilità di essere ebreo). Questo tipo di etichette si chiamano “segmentazione del cliente”.
Durante la Seconda guerra mondiale, Yale fronteggiava un crollo delle iscrizioni e delle entrate, ma continuava a rifiutare candidati ebrei qualificati. Secondo Karabel, nel linguaggio della sociologia, Yale giudicava il proprio capitale simbolico molto più prezioso di quello economico. In affari, nessuno sacrificherebbe la propria reputazione per un vantaggio a breve termine. I responsabili per le ammissioni di Harvard sono infatti sempre stati attenti nei confronti dei figli dei laureati, o – come vengono chiamati in modo pittoresco – “eredi”. Dal 1985 al 1982, per esempio, il tasso di figli di ex alunni ammessi a Harvard è stato il doppio di quello dei ‘non atleti’, dei ‘non figli’ di ex alunni, malgrado il fatto che, su ogni scala magica di valutazione della scuola, i figli di ex alunni fossero indietro rispetto agli altri. Karabel definisce questa pratica “nel migliore dei casi non meritocratica e nel peggiore profondamente corrotta”, ma ricompensare la lealtà è quello che fanno i marchi di lusso. Harvard vuole buoni laureati, cioè generosi e leali, figli di ex alunni che fanno grandi donazioni all’ateneo. […]
Le scuole elitarie, come ogni altro brand di lusso, sono un’esperienza estetica, una fantasia squisitamente costruita sull’idea di far parte di una élite, e sono sempre state molto attente a fare ciò che deve essere fatto perché quell’esperienza possa durare nel tempo.
Negli anni ’80, quando Harvard fu accusata di applicare segretamente un tetto all’ammissione di asiatici, si difese sostenendo che dopo aver adeguato le preferenze date ai figli di ex alunni e agli atleti, gli asiatici non erano realmente discriminati. Ma era palpabile l’esasperazione suscitata dalla questione. Se Harvard avesse avuto troppi asiatici non sarebbe stata Harvard, così come non lo sarebbe stata se avesse avuto troppi ebrei, o checche o salottieri o gente timida o che non avesse l’aspetto fisico adeguato.
La meritocrazia è il riconoscimento che si dà ad un imbecille di essere pronto fino alla morte a dimostrare di non esserlo.
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Aforismatico, oggi. Leggi così velocemente? 😉
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Era, ahimè, argomento di cui ero edotto.
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Io sono stato rifiutato anche dalla Scuola RadioElettra. Il Cepu si riserva in base all’anticipo che gli mollo.
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Ahahahahahahjgcnjfghgh!!!! Peggio di Veltroni, sei
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A parte gli scherzi, non so negli altri paesi, ma anche noi ne abbiamo che “basta pagare”, sia di università che di master…
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as usual
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Anche io ho frequentato (solo il triennio, perché avevo già 44 anni e tanti problemi di tempo e di altro genere) un’università privata, ma senza alcun particolare prestigio. Ma i docenti mi sono parsi ottimi: venivano tutti dalle università statali. Soprattutto, era piuttosto piccola e quindi meno dispersiva delle statali, dove la proporzione tra “vecchietti” e pischelli sarebbe stata schiacciante e vistosa. Ed era pure abbastanza vicina a casa 😉
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Beata te purtroppo sono stato bocciato all’asilo infantile. Il trauma mi ha allontanato definitivamente dallo studio.
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😀
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L’aristocrazia dell’istruzione… o l’ “educazione” per creare uomini (e donne) fabbricati?
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Si plasmano la classe dirigente che vogliono, ma non sembrerebbe un gran metodo.
Secondo l’articolo del Corriere della Sera che ho linkato e che ha ripreso la notizia da un’inchiesta del New York Times, c’è in ballo la faccenda della “«legacy admission», ovvero la possibilità di essere ammessi in un’università d’élite perché l’ha frequentata in passato un genitore. Ad esempio nel 1964 George W. Bush fu ammesso a Yale solo perché il padre, l’allora petroliere e futuro presidente George H. W. Bush, e il nonno, il senatore Prescott Bush, avevano precedentemente frequentato l’ateneo. Con i suoi bassi voti Bush Jr. non sarebbe mai entrato.”
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Il che le rende mediocricratiche, ma dollaricratiche. Ma resta il fatto che hanno una funzione differente dalla formazione ed educazione… e infatti è come una “green… card” per accedere ai piani alti! 😉
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A me personalmente non sono mai piaciute le valutazioni, e poi la meritocrazia se non ricordo male fa parte di una società liberista. Liberista fino a un certo punto perché io debbo essere valutata da un essere simile a me che dovrebbe saperne più di me di come io sono o di quello che io ho fatto… il fulcro è ma cosa potrei ancora essere? L’ho letto il libro di Michael Young, L’Avvento della Meritocrazia… praticamente mi ha un po’ illuminata 🤭
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Beh, in teoria un valutatore dovrebbe saperne di più di un valutato: non ci vedo nulla di male e, anzi…, magari fosse così.
La meritocrazia fa parte di una società LIBERALE. È un po’ diverso, no?
Comunque mi informerò sul libro che ti ha illuminata. Non leggo mai quel genere di libri, neanche quelli citati nell’articolo, ma qualche informazione penso di poterla trovare. Sono proprio il topo da biblioteca che le Ivies non volevano!!!
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Ma penso che in base all’esperienza e al vissuto ognuno abbia una libera interpretazione della meritocrazia soprattutto in base alle esperienze personali comunque è un buon libro diciamo fuori dagli schemi diciamo che non ti illuminerà magari però ti darà una visuale diversa vedi il secondo lo scrittore la meritocrazia è davvero un problema gravosissimo… una sorta di atteggiamento sotto scacco non ti dico altro.😊
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Faccio parte di quel percentile che può. Sono consapevole di essere bravino. Ma se voglio vivere decentemente vicino a tutti devo accettare che tutti, ma proprio tutti, possiamo comprare la focaccia al formaggio (oggi in alcune zone 20 euro/kg non oso pensare fra poco). In una riunione dell Auser un signore faceva notare che la meritocrazia ha dei limiti tra i quali:-Ok quelli bravi faranno carriera, staranno up. Ma cosa ne facciamo degli altri?.
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Aveva ragione, il signore: se sono dei nullafacenti e nullavolentifare, è un conto, altrimenti…
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