
Steinberg è stato per tutta la vita l’uomo con la matita in mano. Non contraddice chi lo definisce disegnatore, vignettista, cartoonist. Questo lo rende libero di osservare, criticare, a volte omaggiare, i fenomeni artistici coevi.
da un articolo di Alberto Saibene
Rivista il Mulino, 12 febbraio 2022
Il giorno dell’inaugurazione della mostra di Saul Steinberg alla Triennale (aperta fino al 13 marzo) si respirava un clima quasi euforico: l’idolo era tornato a casa, o almeno in una delle tappe – Râmnicu Sărat, dove nasce nel 1914; Bucarest; Milano (dal 1933 al 1941); l’internamento; il viaggio verso gli Stati Uniti; il periodo nell’esercito americano e infine, dopo la guerra, New York, dove muore nel 1999 – di una vita dapprima nomade («l’ebreo errante»), poi relativamente stanziale, tra la città e gli Hamptons, di uno dei grandi personaggi del XX secolo.

Un’opera in mostra, École de Paris vs. École de New York (1955) coglie con perfetto sincronismo, l’oscillazione del pendolo tra Europa e Stati Uniti, quando la metropoli americana si accinge a diventare la «capitale del XX secolo». Un primato che Steinberg ha contribuito a consolidare soprattutto attraverso le copertine e le vignette del «New Yorker», il sofisticato settimanale highbrow che sta un gradino sopra la cultura di massa con cui gli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, hanno invaso prima l’Occidente e poi il resto del mondo
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‘No, dear sir. It’s the other half you were supposed to make.’
Steinberg fu attratto dalla vita culturale della città [Milano] che, nonostante il fascismo, era abbastanza vivace e attenta a quel accadeva nelle principali capitali europee. Presto conobbe Aldo Buzzi, l’amico di una vita, poi Giovanni Guareschi e Cesare Zavattini, che lo ingaggiarono nel settimanale umoristico «Bertoldo», allora popolarissimo, e a cui aspiravano a collaborare, in qualche caso riuscendovi, i giovani Federico Fellini e Italo Calvino, da allora grandi ammiratori di Steinberg. I disegni del «Bertoldo» e di «Settebello», altra rivista satirica dell’epoca, rivelano in Steinberg un umorismo surreale, forse ancora un po’ timido, ma un quadro dei primi anni Quaranta, una mappa immaginaria della Liguria, ne testimonia la raggiunta maturità. È un’opera che inaugura un filone, le prospettive infinite, che è diventato poi uno dei suoi marchi di fabbrica.
È stato per tutta la vita l’uomo con la matita in mano, quasi un’appendice da cui non si separava mai: così, dopo le conseguenze delle leggi razziali, disegna la cella di San Vittore, poi la camerata del campo d’internamento di Tortoreto, con precise didascalie che ne descrivono gli ambienti.
A quel punto non può più essere un umorista che coglie sorridendo le spigolature della nostra società, le circostanze della vita lo rendono uno degli interpreti più profondi, e allo stesso tempo leggeri – il miracolo sta nell’equilibrio tra le parti – del XX secolo. Il commentatore critico del proprio tempo.
Una delle opere più impressionanti ed esplicite in mostra è l’Alfabeto per Pietro Nivola, il figlio di Costantino, l’artista di origine sarda, suo grande amico e anche lui emigrato negli Stati Uniti. L’opera è del 1944 e le voci illustrate riguardano: Antisemita, Bomba, Comunista, Dittatore, Emigrante, Fame, Guerra, Hallo Joe, Italia, Jeep, Kamerad, Lucky Strike, Merda (Mussolini), Nazionalismo, Officina, Partigiano, Roosevelt e Stalin, Tiranno, Unità, Viva. Manca la Z ma l’alfabeto è un perfetto oroscopo dell’intero Novecento, un secolo di totalitarismi, di intolleranze e di speranze, dell’avvento delle masse nella storia e l’opera rende esplicito il fatto che se le guerre si vincono con le armi, per vincere il dopoguerra servono le sigarette americane.

Steinberg fu uno straordinario cronista degli ultimi anni del conflitto, trascorsi su più fronti (Cina, India, Nord Africa, Italia) nell’OSS (Office of Strategic Service) con compiti di propaganda.
I disegni documentano i bombardamenti, ma anche quell’autentica rivoluzione sociale che fu la risalita degli Alleati lungo la nostra Penisola, quando due civiltà si trovarono a confronto e fu subito chiaro a tutti quale sarebbe stato il nostro futuro.
In mostra è esposta una bellissima lettera di Zavattini all’amico del 2 giugno 1946, il giorno del referendum istituzionale, una data che segna simbolicamente il tramonto di un’epoca. Steinberg vorrebbe che l’amico lo raggiungesse a New York, dove per una mente così vulcanica le opportunità potrebbero essere infinite. Risponde Za: «Non riuscirei a stare lontano dall’Italia più di un mese all’anno, ma un mese entro l’anno spererei proprio di passarlo all’ombra dell’infelicità degli americani». Prosegue: «più dei loro libri, mi piacerà guardarli e pedinarli». Come nota Gabriele Gimmelli nel catalogo della mostra (che catalogo non è, ma un lemmario steinberghiano): «Una frase inconfondibilmente zavattiniana, ma anche steinberghiana: di lì a poco, infatti, l’artista incomincerà la sua personale “scoperta dell’America”, in auto o in pullman, osservando con occhio da antropologo i suoi abitanti”.

Steinberg sarà sempre grato agli Stati Uniti di avergli assicurato il benessere personale e la libertà individuale (resterà sempre nettamente anticomunista), ma è uno spietato osservatore dell’american way of life. Le sue ossessioni, i temi che ricorrono, sono l’artificiosità delle donne americane, il tacchino simbolo del Thanksgiving, le automobili che hanno sostituito le persone annullando la street life, le pubblicità al neon, i diner (fa suo il consiglio di Somerset Maugham di fare tre prime colazioni al giorno per neutralizzare gli effetti del cibo americano), il baseball, i motel, le majorettes, gli interni che mescolano casualmente gli stili di arredo (neogotico e Bauhaus), i vuoti della California prima delle piscine di David Hockney.
Quello che più lo attrae, mi pare, è ritrarre la nascita di una nuova civiltà, una società di sradicati dove è necessario inventare una tradizione, con il mondo artificiale che prende il posto di quello naturale. Il corrispettivo letterario di queste esplorazioni etnografiche lo troviamo nell’Incubo ad aria condizionata (1941), il viaggio americano di Henry Miller, o nella Route 66 percorsa da Humbert Humbert in Lolita (1955) di Vladimir Nabokov. I disegni del periodo americano vanno letti diacronicamente rispetto ai mutamenti della società, da Truman alla restaurazione reaganiana e dei suoi successori. Si nota come, col passare degli anni, i colori diventano più acidi e il tratto si indurisce.


Steinberg è anche molto attento a quel che avviene sulla scena artistica contemporanea.
Gli anni trascorsi in Italia, i regolari ritorni in Europa dopo la guerra, gli hanno fatto conoscere da vicino tutta lo svolgimento della storia dell’arte occidentale. La curiosità, sua inesauribile musa – Steinberg è un attentissimo antropologo dei comportamenti di massa, ma diffida del singolo, oltre ad avere una vena di misoginia che riaffiora qua e là – lo avvicina alle avanguardie europee di cui, pur da artista figurativo, non può non tener conto (Picasso, Klee, Mondrian che si diverte a falsificare, ma il vero/falso è un altro dei suoi temi).
Di fatto la storia dell’arte è un inesauribile magazzino da cui pesca a piene mani. Non contraddice chi lo definisce, secondo un’ideale graduatoria, disegnatore, vignettista, cartoonist. Questo lo rende libero di osservare, criticare, a volte omaggiare, i fenomeni artistici coevi, dall’action painting alla pop art. È un discorso che andrebbe dimostrato sulle opere, ma di fatto Steinberg è anche uno straordinario critico degli sviluppi dell’arte novecentesca.
È anche uno sperimentatore di tecniche miste, collages, fa ampio uso della tipografia nelle sue opere. Tra le autodefinizioni che si possono leggere nelle molte interviste ora recuperate nella nuova edizione della monografia che gli dedica Riga (Quodlibet, 2021), a cura di Marco Belpoliti, Gabriele Gimmelli e Gianluigi Ricuperati, una forse si avvicina più di altre a fissare una personalità così sfuggente: «Sono uno scrittore. Disegno perché l’essenza di uno scritto riuscito è la precisione e perché il disegno è un modo di espressione preciso».

La mostra, che intende riannodare il legame tra l’artista e l’Italia, in particolare con Milano, trova il suo svolgimento più compiuto con l’esibizione dei quattro leporelli (strisce di carta piegati a fisarmonica) preparati da Steinberg, su invito dei BBPR, per il Labirinto dei ragazzi installato nel Parco Sempione in occasione della X Triennale del 1954, ed esposti ora per la prima volta. La vicenda è ricostruita attraverso documenti d’archivio ed è molto interessante notare, oltre a ritrovare un campione dell’arte steinberghiana che utilizzò per l’occasione la tecnica dello sgraffito (decorazione a fresco), il suo interesse nel avvicinare le nuove generazioni all’arte. Come scrisse Rogers invitandolo a collaborare: «non ci piace la parola “Museo”».
Dell’altra opera milanese, il graffito per la palazzina Mayer di via Bigli, restano solo le fotografie di Ugo Mulas, essendo stato cancellato da una sciagurata ristrutturazione.

Avviandosi verso la fine della mostra si nota come negli ultimi anni sia avvenuto un ripiegamento verso il privato. La società gli interessa di meno e passa sempre più tempo nel buen ritiro degli Hamptons. Conversa al telefono con lo scrittore rumeno Norman Manea per ricostruire la topografia della Bucarest della giovinezza, oppure disegna a memoria la Milano degli anni Trenta, la «Milano-Bauhaus” in cui è evidente l’impatto con la modernità che allargò il suo immaginario.
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Di sé dice: “Sono una mano che disegna e basta». Preferisce mettersi al tavolo di lavoro tra matite, forbici, pastelli, colla, dimostrazione palese che ogni processo artistico nasce dall’artigianato, dall’uso dei ferri del mestiere. Davanti alla cinepresa comincia a disegnare delle linee. La linea perfetta è una retta da A a B – chissà se conosceva l’aforisma del suo ammiratore Ennio Flaiano: «In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco» – poi comincia a fare dei ghirigori che diventano ritratti, esteriori e interiori, di uomini e donne, poi si trasformano in ambienti. Indossa una maschera costruita per nascondersi «agli altri e a sé stessi», commenta acutamente Zavoli.

Grandioso!!! M9kto bell8 che gli hai dedicato un post che lo descrive al meglio 😉
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Gliene avevo dedicato pure un altro, appena avevo saputo della mostra! 🙂
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Ho appena comprato il libro della sua mostra a Milano. Grandioso.
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Ah, mi fa proprio piacere!!! Ma è una specie di catalogo?
Solo ora scopro che c’è tanta gente che lo adora, Chissà dov’erano, prima.
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