

Il fonema che ti ha perseguitato per una vita diventa sperimentazione linguistica, esempio virtuoso dell’italiano standard del futuro. [Considerazioni di una politicamente incorretta, NdFA m., perseguitata dai fonemi per anni]
da un articolo di Gianluca Nativo
Rivista Studio, 16 novembre 2021

Chiunque abbia frequentato i dipartimenti di Lettere della Federico II di Napoli conosce già da tempo, prima di ddl Zan e complotti gender, il fenomeno dello schwa. La vocale indistinta, il suono neutro, quello che, nel diagramma vocalico, si pone proprio al centro, perché non comporta nessuna inflessione specifica della bocca se non un inquietante e disfatto sospiro, proprio di chi non sa cosa dire e per questo sta fermo, impreparato, prende tempo, a bocca aperta: “əəəə”.
La morfologia del dialetto napoletano è costituita dalla quasi totale assenza delle vocali finali, di solito sostituite da un suono indistinto, registrato nell’IPA (alfabeto fonetico internazionale) proprio con la trascrizione fonetica dello schwa. Ma nel momento in cui le parole perdono il morfema del femminile e del maschile, come fanno allora i napoletani per individuare i generi? Il dialetto napoletano li riabilita attraverso meccanismi e processi più ambigui, pieni di eccezioni, spesso neutri e indeterminati, un po’ pezzotti, che prendono però il nome tecnico di raddoppiamento fonosintattico, variazione metafonetica, fenomeni molto spesso imprevedibili, di certo non classificabili facilmente come nella dimensione binaria, a dominazione maschilista, dell’italiano. Con il napoletano il problema dei plurali maschili sovraestesi è risolto. «Bona sera a tuttə quantə». Cosa fare? Trasferire la Crusca a Napoli? Risciacquare i panni a via Caracciolo?

Chi ha raccontato meglio il rapporto di una vita intera con il dialetto napoletano, in un andirivieni costante di amore e odio, rifiuto ed entusiasmo, è Domenico Starnone. Dal Salto con le Aste al recente romanzo Vita mortale e immortale della bambina di Milano, il rapporto con il napoletano diventa un conflitto personale attorno al quale i suoi personaggi crescono, riflettono, nella maggior parte dei casi si emancipano, allontanando da sé lo spettro dell’ignoranza della generazione precedente, dei padri cresciuti durante la guerra, che l’italiano non lo parlavano ma si esprimevano solo attraverso l’uso più violento del dialetto, in una sequela di insulti dati a colpi di occlusive bilabiali sorde e fricative alveolari, (vafammoccacchitemmuortə, per intenderci). Il dialetto quindi come vergogna, da emendare con un italiano forbito tutto letterario, scolastico, appreso dalla lingua dei fumetti di Tex Willer, o dalle traduzioni dei romanzi ottocenteschi comprati a poche lire sulle bancarelle [cosa ci sia da ridire su questi romanzi, tra i quali ce ne sono di grandiosi, sulle poche lire e sulle bancarelle, non lo capisco, NdFA minore].
Il protagonista del suo ultimo romanzo, iscritto a un esame di glottologia, deve compilare decine di schede in cui trascrivere parole napoletane nell’alfabeto IPA. In una delle scene più belle del romanzo limita il suo case study alla nonna, silenziosa e analfabeta. Così durante un pomeriggio, non senza un certo imbarazzo, la donna prende a sfiorare gli oggetti di casa e a evocarne i nomi. Peccato che, per l’autorevolezza del lavoro («l’università, secondo lei si trovava in alto, quasi in cielo e risultò inutile dirle che bastava andare per il Rettifilo, chissà quante volte c’era passata davanti») la nonna si lascia andare a ipercorrettismi inutili, mette le vocali a fine parola (“pirciatell-a, votapesc-e”) in una parodia di napoletano che indispettisce il nipote, che invece ha bisogno del contrario, della lingua più verace, più esotica, quella che servirà poi ai professori universitari per i loro studi di dialettologia. E allora la nonna riprende a dare alle cose i nomi giusti, ma di nuovo Mimì si irrita a sentirla pronunciare le parole in quella lingua di cui in fondo si vergogna. A lavoro finito, in quelle schede ben compilate nessuno dei due, né il giovane glottologo né la nonna analfabeta, riusciranno a riconoscersi.
«Avevo sempre detestato del dialetto l’assenza delle finali quel loro perdersi in un suono indistinto. Mio padre, che so, strillava con mia madre – addo cazzə si ghiutə accussi’ mpennacchiatə? –, e le parole gelose si slanciavano da lui a lei cercando di colpirla con z, con t, che annaspavano senza vocale, denti che volevano azzannare e invece mordevano ferocemente solo aria».
Anche chi scrive, più di cinquant’anni dopo la storia raccontata da Starnone, ha sempre vissuto con un certo disagio l’onnipresenza dello schwa, la sua cadenza incorreggibile anche nell’italiano regionale, che andava a peggiorare una già sinusitica cadenza. Un retaggio culturale che immediatamente ti pone fuori da certi quartieri, (il Vomero ad esempio, quartiere dove non tutti conoscono il napoletano) ti ingabbia all’istante in una posizione socio-culturale che non va oltre l’impiego statale. Che ridere riconoscere in molti genitori professionisti (medici soprattutto) un parlato per le occasioni pubbliche cristallino, in molti casi effeminato, da gagà, un’intonazione precisa, tutte le vocali finali al posto giusto. Ci vuole pazienza per ammorbidire certe inflessioni.
E invece all’improvviso, il fonema che ti ha perseguitato per una vita, diventa sperimentazione linguistica, esempio virtuoso dell’italiano standard del futuro. La Crusca è contraria allo schwa, o meglio, è poco ottimista sulla possibilità che la morfologia di una lingua possa essere stravolta nell’immediato e attraverso un percorso artificiale, indotto. Il napoletano intanto non è mai stato così cool, con buona pace di Starnone e di tutti noi provinciali. Sarà il caso allora di farsi avanti, di ribaltare la storia culturale del Paese, di diventare per una volta lo standard e non l’eccezione, far convivere finalmente tutte le divergenze a suon di mandolino e bocche aperte?

Vera Gheno, sociolinguista del momento, esalta le potenzialità dello schwa perché, spiega, è un suono pronunciabile, indistinto per i generi indistinti, è sperimentale, non stona in un testo. La studiosa ricorda che la lingua si modifica in base all’uso, nessuna teoria gender, qui si tratta solo di sana sperimentazione. Infine, come ultimo appeal, il suono dello schwa, dice, è esotico. E già il richiamo verso Napoli, meta proibita di Grand Tour, con la sua eccezionalità irriducibile, torna a galla, magari sotto l’eco di un gorgheggio neomelodico che non è altro che uno ə melodioso e prolungato.
Raga, c’è da studia’

Il termine schwa è attestato per la prima volta nell’ebraico medievale parlato da un gruppo di eruditi attorno al decimo secolo dopo Cristo. La sua etimologia non è chiara: alcuni ritengono che sia un lontano parente della parola ebraica shav, “niente”, altri che c’entri col significato di “pari”, “uguale”. Sappiamo però che a un certo punto la parola schwa fu utilizzata per definire i due puntini che nell’ebraico biblico, posti sotto una consonante, indicano una vocale brevissima o l’assenza di una vocale.
Secoli più tardi, nel 1821, il linguista tedesco Johann Andreas Schmeller stava compilando una grammatica del tedesco bavarese e aveva bisogno di un simbolo che indicasse una vocale molto breve, che evidentemente percepiva come vicino allo schwa ebraico. Così inventò un simbolo dell’alfabeto latino che potesse rappresentarlo, cioè ə. Alcuni anni più tardi l’esperto di fonetica Alexander John Ellis utilizzò lo stesso simbolo per definire una vocale indistinta presente nella lingua inglese, e da lì lo schwa arrivò fino all’alfabeto fonetico internazionale, compilato alla fine dell’Ottocento.
In passato lo schwa è stato già usato come convenzione grafica: alla fine dell’Ottocento il celebre linguista svizzero Ferdinand de Saussure teorizzò che l’indoeuropeo – cioè il ricettacolo di suoni associati a idee da cui deriva la maggior parte delle lingue parlate oggi in Europa, oltre all’indiano e al farsi – avesse un’unica vocale indistinta e pronunciata con la gola “strozzata” che identificò con lo schwa, da cui ogni lingua avrebbe sviluppato in maniera autonoma le vocali che conosciamo oggi.
Secondo Saussure la presenza della vocale indistinta era il motivo per cui, per esempio, da una radice *pəter derivano il latino pater (poi “padre” in italiano) e piter in sanscrito, l’antichissima lingua sacra parlata in India già nel primo millennio a.C. Nei decenni successivi l’intuizione di Saussure si è evoluta nella cosiddetta teoria delle laringali – dalla parte della gola che si pensa coinvolta nella produzione delle vocali primitive – di cui ancora oggi si discute fra gli storici dell’indoeuropeo.

La ragione per cui chi promuove un utilizzo più inclusivo in italiano propone di utilizzare lo schwa prende spunto sia dall’uso che se ne fa oggi, nell’ambito dell’alfabeto fonetico internazionale, sia nel suo passato da convenzione grafica (oggi per definire le laringali gli studiosi preferiscono utilizzare il simbolo h). C’è un’altra ragione, più intuitiva: come ha scritto Luca Boschetto, un attivista fra i primi a suggerire l’utilizzo dello schwa nell’italiano scritto, lo schwa «graficamente assomiglia ad una forma intermedia tra una “a” e una “o”», cioè le due vocali con cui in italiano identifichiamo con maggiore frequenza il genere femminile e quello maschile.
La linguista Vera Gheno, che da tempo sostiene la necessità di trovare soluzioni alternative per evitare il predominio del maschile come ad esempio l’asterisco, di recente ha scritto di avere una «preferenza» per lo schwa perché «rappresenta la vocale media per eccellenza» e «il vantaggio è che, al contrario di altri simboli non alfabetici, ha un suono – e un suono davvero medio, non come la U che in alcuni dialetti denota un maschile».
Per utilizzare lo schwa nelle tastiere più comuni, qui ci sono le indicazioni da seguire: sui sistemi Windows è più facile, mentre su Mac se volete evitare passaggi troppo complicati potete accontentarvi del simbolo matematico ∂, che si scrive cliccando option + caps lock + d. Ma la cosa più semplice è comunque copiarlo e incollarlo, ad esempio da qui: ə.


Scevà (adattamento italiano di Schwa, trascrizione tedesca del termine grammaticale ebraico shĕvā /ʃəˈwa/, che può essere tradotto con «insignificante», «zero» o «nulla») è il nome di un simbolo grafico (meglio, di un segno paragrafematico) ebraico costituito da due puntini [:] posti sotto un grafema normalmente consonantico, per indicare l’assenza di vocale seguente o la presenza di una vocale senza qualità e senza quantità, quindi di grado ridotto.
Lo scevà è un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità (➔ vocali); spesso, ma non necessariamente, una vocale media-centrale. È trascritto con il simbolo IPA /ə/ (➔ alfabeto fonetico) e nel quadrilatero vocalico ha una posizione centrale.
Nelle lingue
Lo scevà è molto comune nelle lingue del mondo, come allofono (➔ allofoni) di fonemi vocalici atoni, soprattutto in fine di parola.
In inglese è la vocale protonica (➔ protonica, posizione).
In francese è prodotta con un leggero arrotondamento delle labbra e risulta essere meno centrale ma comunque sempre atona: fenêtre «finestra» si pronuncia isolatamente [fəˈnɛːtr] ma nel parlato veloce può anche diventare [fnɛːtr], anche se fonologicamente il nesso /fn/ non è accettato in francese. Ciò vale anche per il nesso /ʃt/ e la pronuncia di jeton «gettone» [ʃəˈtɔ̃] o [ʒəˈtɔ̃] che nel parlato veloce diventa [ʃtɔ̃].
È atono anche nell’albanese dell’Italia meridionale (➔ albanese, comunità), per es. nella stessa parola arbëreshë «albanese», che si pronuncia [arˈbəreʃ].
In alcuni casi lo scevà può anche essere vocale tonica. In bulgaro e in afrikaans possono trovarsi scevà tonici (accentati), mentre in inglese bird «uccello» ha pronunce come [bəːd] con nucleo sillabico lungo e centrale [ə], ma anche pronunce come [bɜːd], con vocale centrale semibassa.

Proprietà
Foneticamente, lo scevà è il risultato di un ➔ indebolimento dell’articolazione di vocali (sia anteriori sia posteriori), che in posizione atona sono articolate più centralmente rispetto al loro target naturale (➔ fonetica articolatoria, nozioni e termini di).
Articolatoriamente si tratta di vocali non completamente realizzate e prodotte con un grado di apertura intermedio, con la lingua in posizione centrale e dalla qualità indistinta.
Fonologicamente tale indebolimento può essere considerato una riduzione qualitativa della vocale nel suo passaggio da tonica ad atona. Il processo di riduzione vocalica è uno tra più diffusi al mondo e si realizza in molte lingue, come catalano, portoghese, inglese, tedesco e neerlandese (Nespor 1993: 92).
In italiano lo scevà non è presente come fonema (avendo l’italiano standard solo vocali distinte e nette), ma solo come variante libera, o in alcuni casi contestuale (➔ allofoni), di quasi tutte le vocali.
Nei dialetti
Lo scevà appare invece in diversi dialetti del Centro e del Sud d’Italia. In alcuni dialetti, come quelli di Napoli (➔ Napoli, italiano di) e Bari, la riduzione a scevà delle vocali finali neutralizza opposizioni flessive o distinzioni morfologiche (Loporcaro 2009: 124).
Ad es., a Molfetta (Bari) la differenza tra alcune opposizioni, a causa di una riduzione a scevà della vocale finale, si riconosce solo dall’articolo: [rəˈfːuekə] «il fuoco» e [uˈfuekə] «il focolare»; [rəˈvelə] «il velame» contro [uˈvelə] «il velo» (Merlo 1917a: 91).
Nel dialetto di Trebisacce (Cosenza) il plurale è segnalato solo dalla vocale tonica interna che ha subito un processo di ➔ metafonia: /neˈpote/ «nipote» è foneticamente [neˈpotɘ], mentre /neˈputi/ «nipoti» diventa [neˈputə], sicché il plurale è riconoscibile solo grazie alla vocale tonica interna (Romito et al. 1997 e 2006; Romito & Gagliardi 2009; Loporcaro et al. 1998).
In altri dialetti la differenza è segnalata dal ➔ raddoppiamento sintattico: ad es., in napol. [o ˈvriːtɘ] è «il (pezzo di) vetro», mentre [o ˈbːriːtɘ] con raddoppiamento di /v/ e rafforzamento in [bː] è «il vetro (come materiale)» (Merlo 1917b: 105-111) (➔ neutro; ➔ massa, nomi di).
La riduzione a scevà del vocalismo finale atono è criterio fondamentale di alcune delle principali isoglosse (➔ isoglossa) usate per classificare i ➔ dialetti italiani. Tutti i dialetti alto-meridionali sono infatti caratterizzati dalla neutralizzazione delle qualità vocaliche e dalla riduzione in scevà delle vocali finali o intermedie.
Studi
Loporcaro, Michele (2009), Profilo linguistico dei dialetti italiani, Roma – Bari, Laterza.
Loporcaro, Michele et al. (1998), La neutralizzazione delle vocali finali in crotonese: un esperimento percettivo, in Unità fonetiche e fonologiche. Produzione e percezione. Atti delle VIII giornate di studio del Gruppo di fonetica sperimentale (Pisa, 18-19 dicembre 1997), a cura di P.M. Bertinetto & L. Cioni, Pisa, Scuola Normale Superiore, pp. 91-100.
Merlo, Clemente (1917a), L’articolo determinativo nel dialetto di Molfetta, «Studi romanzi» 14, pp. 69-99. Merlo, Clemente (1917b), Proposte di aggiunte ai §§ 36/352, 383/384 della “Italienische Grammatik” di W. Meyer-Lübke, «Studi romanzi» 14, pp. 100-112.
Nespor, Marina (1993), Fonologia, Bologna, il Mulino.
Romito, Luciano et al. (1997), Micro e macrofenomeni di centralizzazione nella variazione diafasica: rilevanza dei dati fonetico-acustici per il quadro dialettologico del calabrese, in Fonetica e fonologia degli stili dell’italiano parlato. Atti delle VII giornate di studio del Gruppo di fonetica sperimentale (Napoli, 14-15 novembre 1996), a cura di F. Cutugno, Roma, Esagrafica, pp. 157-176.
Romito, Luciano et al. (2006), Uno studio degli esiti metafonici nei dialetti dell’area Lausberg: un’introspezione sulla natura della sillaba, in Analisi prosodica. Teorie, modelli e sistemi di annotazione. Atti del II convegno nazionale dell’Associazione italiana di scienze della voce (Fisciano, 30 novembre – 2 dicembre 2005), a cura di R. Savy & C. Crocco, Fisciano, EDK, vol. 2º, pp. 538-565.
Romito, Luciano & Gagliardi, Daniela (2009), La metafonia in alcuni centri del nord Calabria: verso una mappa regionale, in Id., V. Galatà & R. Lio (a cura di), La fonetica sperimentale: metodo e applicazioni. Atti del IV convegno nazionale dell’Associazione italiana di scienze della voce (Università della Calabria, 3-5 dicembre 2007), Torriana, EDK, vol. 4º, pp. 423-437.

Un asterisco sul genere
È ormai divenuto molto alto il numero dei quesiti pervenutici su temi legati al genere: uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili; possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie; genere grammaticale da utilizzare per transessuale e legittimità stessa di questa parola. Cercheremo in questo intervento di affrontare le diverse questioni.
La nostra risposta investe il piano strettamente linguistico, con riferimento all’italiano (non potrebbe essere che così, del resto, visto che le domande sono rivolte all’Accademia della Crusca).
Genere naturale e genere grammaticale non coincidono affatto
[…]
Neppure in italiano si ha una sistematica corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie, ma questo non vale sempre.
Il maschile plurale come genere grammaticale non marcato
Un altro dato da ricordare è che nell’italiano standard il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato, per esempio nel caso di participi o aggettivi in frasi come “Maria e Pietro sono stanchi”. Inoltre, se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi (invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne). Se qualcuno dichiara di avere “tre figli”, sappiamo con certezza solo che tra loro c’è un maschio (diversamente dal caso di “tre figlie”), a meno che non aggiunga “maschi” (cfr. l’intervento di Anna M. Thornton sul Magazine Treccani).
[…]
La lingua tra norma, sistema e scelte individuali
Chi si rivolge all’Accademia della Crusca (la quale peraltro non ha alcun potere di indirizzo politico, diversamente dall’Académie Française e dalla Real Academia Española, che hanno un ruolo ben diverso sul piano istituzionale) pensa alla lingua considerando la “norma” in senso prescrittivo (in molti quesiti ricorrono infatti parole come corretto e correttezza, propri della grammatica normativa e scolastica). Ma le scelte sono completamente libere, perché chi parla o scrive deve comunque far riferimento a un sistema di regole condiviso, in modo da farsi capire e accettare da chi ascolta o legge.
Lo leggerei tutto quest’articolo, ma non voglio passare la notte a grattarmi per l’orticaria di leggere talune stramberie (diciamo così per non dir di peggio).
Domani lo riprendo, convinto che ne tu ne abbia fatto un articolo goliardico. 🙂
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Ehm, in realtà è un po’ serio(so). ‘na bella mattonata 😀
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Le “stramberie” le ho lasciate fuori. Poi, va a sape’ se intendiamo le stesse cose…
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Io proporrei l’adozione del Napoletano come lingua inclusiva universale 😄
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Sono d’accordissimo!!! Anche se, pardon, aggiungerei il siciliano.
Ovviamente sono dialetti pieni di sfumature (le cosiddette “isoglosse”), ma l’italiano vero non è nato col “dolce stil novo”, è nato laggiù, alla corte di Federico II 🙂
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Ho i miei dubbi però che lo shwa entrerà tanto facilmente nell’italiano standard e nel linguaggio dei parlanti, che fino a prova contraria sono coloro che selezionano la lingua. Sarebbe bello, ma come tutte le cose perfette è utopico
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Ho i miei dubbi anche io, ma è da tempo che si vedono – se non altro – gli asterischi.
Dal mio punto di vista, di (ex) studiosa di linguistica, non sarebbe bello.
Ci stiamo “incartando”…
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esatto, non è una questione di voler discriminare qualcuno, è che il cambiamento nella lingua viene dal parlante, innestare così un sistema nuovo non potrà mai essere produttivo, è una specie di legge, se potessimo far comparire il neutro con una bacchetta magica saremmo penso tutti felici di utilizzarlo
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Sono perfettamente d’accordo: la lingua è viva e vive nei parlanti.
Letto il tuo commento, penso di poter provare ad allargarmi: il politically correct rischia di essere rovinoso.
Per la lingua, di sicuro, e non sono io a dirlo, ma fior fiore di linguisti.
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Sicuramente, rovinoso per la Letteratura (maiuscola)
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il politically correct come tutte le cose va saputo utilizzare, è un ‘arma a doppio taglio
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Sì, davvero. Soprattutto, molte cose andrebbero contestualizzate. Da quando è “nato” in poi, si possono fare tante scelte diverse, mettere in discussione tante cose, ma non si può andare a cancellare ciò che hanno scritto dei giganti della letteratura (per parlare solo di un aspetto, come esempio… vedi Mark Twain)
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