Per lettori volenterosi…

Non c’è retorica più distorcente e nociva di quella della natura che, in tempi di lockdown, si riappropria dei suoi spazi. Rispetto a crisi climatica e pandemia, la scienza ci dice a cosa stiamo andando incontro e quali strategie adottare.

Alcuni video e foto che hanno fatto il giro dei social nei primi giorni di lockdown mostravano l’acqua limpida dei canali veneziani, cigni nei navigli di Milano, delfini nel porto di Cagliari (in un video scambiata per Venezia), fotomontaggi sempre di delfini nei pressi del porto di Venezia, e altri falsi che, come ha dimostrato il National Geographic, volti a alla strumentalizzazione di eventi ordinari.
L’intento di chi ha postato queste immagini era dimostrare che la natura, da quando le persone sono costrette in casa dal lockdown, si riprende i suoi spazi legittimi e guarisce da sé, delegittimando così la necessità del lavoro ambientalista.
In effetti, la natura si stava riprendendo da molto prima che la pandemia di COVID-19 ci costringesse a casa e continuerà a farlo con l’aiuto di buone politiche.

«Dobbiamo stare molto attenti quando traiamo certe conclusioni, anche quando sarebbe bello che ci fosse un collegamento. Fermo restando che gli animali si comportano in modo diverso quando tutto è tranquillo e si fanno vedere più facilmente vicino a città e villaggi».
«Il fatto che possiamo vedere più animali selvatici in giro è principalmente legato ai benefici di una migliore protezione ambientale, una diminuzione di bracconaggio e caccia, un miglioramento dell’habitat»
«Quando si allevia la pressione umana, col tempo la natura risponde positivamente – questo è certo».
«C’è un’enorme capacità di guarigione in natura, il che dà molta speranza. È anche una buona notizia per noi che dipendiamo dalla natura e da tutto ciò che fornisce, come acqua e aria pulite. Crediamo fortemente che ci sia un enorme potenziale per ripristinare i nostri territori degradati. Il recupero è possibile, se scegliamo di promuoverlo».


Frans Schepers, direttore della ONG che lavora per la salvaguardia delle terre selvagge Rewilding Europe.

Quella delle immagini può sembrare una manomissione fatta a fin di bene, ammesso che ne esista una, invece è proprio il messaggio finale a essere pericoloso. Considerare la specie umana come estranea agli ecosistemi in cui vive, persino come il vero virus da estirpare, è problematico da almeno tre punti di vista: ecologico perché non è vero (anche gli uomini sono animali), etico perché è deresponsabilizzante (“dovremmo estinguerci tutti”) e strategico perché connota le pratiche ambientaliste come estremiste (anziché politiche).

L’inquinamento è davvero diminuito?

Oltre alle immagini, un’altra distorsione viene dai dati sull’inquinamento che sembrano mostrare un quadro incoraggiante. Ma, mentre l’aria è indubbiamente più pulita a causa di un calo delle emissioni legate ai trasporti, l’impatto dell’isolamento individuale sull’ambiente è tutto sommato inferiore a quanto si pensi.
In un articolo su Internazionale, Gabriele Crescente ha fatto notare come in realtà tutte le crisi economiche sono state gli unici momenti storici in cui la crescita costante delle emissioni ha subito un calo. Ogni volta si è trattato di un episodio di breve durata seguito dalla ripresa e il conseguente aumento delle emissioni. È successo anche nel 2009: quando i governi hanno meno risorse e hanno fretta, sono le attività produttive tradizionali a venire privilegiate.

Secondo l’ONU, le emissioni di gas serra devono essere ridotte del 7,6% ogni anno per evitare che il riscaldamento globale superi 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.
Contrariamente alla tendenza che vede l’aria generalmente più pulita nelle città dove è stato imposto il lockdown, le concentrazioni di gas serra non si sono fermate.

La diplomazia climatica è rallentata

«La diffusione della pandemia non solo in Italia bensì a livello mondiale ha chiaramente avuto ripercussioni sulle attività internazionali e multilaterali, ivi incluse quelle legate al cambiamento climatico, e allo stato attuale tutti gli incontri organizzati in ambito Nazioni Unite sono stati sospesi», dice a Valigia Blu la dott.ssa Federica Fricano, che si occupa di negoziato internazionale ed europeo sul cambiamento climatico, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.
«Per quanto riguarda l’organizzazione degli eventi previsti a Milano, il governo italiano continua a lavorare in stretto contatto con tutti i suoi partner, incluso il Regno Unito» monitorando costantemente l’evoluzione dello stato di emergenza sanitaria in modo da adattare prontamente le attività al contesto internazionale.

«Anche gli eventi collaterali, che sono comunque importanti per far progredire il negoziato, verranno fortemente ridimensionati».
«Non è facile per nessuno dire ora quali saranno le conseguenze sui negoziati. Questo avrebbe dovuto essere un anno importante perché dovevano esserci i rilanci degli impegni nazionali (Nationally Determined Contributions, o NDC) previsti dall’Accordo di Parigi ogni cinque anni. Cioè si attendevano nuovi impegni in materia di riduzione delle emissioni da parte di tutti i paesi. Se le delegazioni nazionali non potranno incontrarsi, chiaramente sarà più difficile soddisfare le aspettative, aumentate nel 2019. Per quanto riguarda i negoziati bilaterali, l’Unione europea aveva già previsto un percorso di confronto con la Cina».


Stefano Caserini, ingegnere ambientale ed esperto di clima.

Dopo che varie ONG ambientaliste hanno chiesto di tenere in considerazione la lotta al cambiamento climatico nei pacchetti di salvataggio economico, i leader europei hanno concordato che la ripresa non tralascerà la “transizione verde” stabilita a causa della pandemia.
Allo stesso tempo, richieste di allentare gli obiettivi della lotta al cambiamento climatico sono già arrivate da ogni parte con il pretesto della mancanza di denaro sufficiente.
«Chi propone di aspettare ad agire e mettere da parte le politiche sul clima non ha capito la sostanza del cambiamento climatico, quali sono i tempi e la grande inerzia del problema», aggiunge Caserini. «Mentre l’emergenza coronavirus si è presentata nel giro di pochi mesi, prima era sconosciuta e probabilmente fra qualche anno sarà soltanto un ricordo, il cambiamento climatico ha almeno 100 anni di incubazione e si farà sentire per secoli e millenni. La scala temporale del cambiamento climatico è totalmente diversa da quella del coronavirus, ma il suo impatto stimato a livello sanitario non è certo da meno».

La pandemia è come il cambiamento climatico in modalità accelerata

Invece di rilassarci e congratularci perché la natura si sta riappropriando dei propri spazi come se l’uomo fosse un alieno e non ne facesse parte, dovremmo pensare alle conseguenze delle nostre azioni e delle decisioni che i leader mondiali prendono in campo energetico, economico e di sviluppo industriale.
Il nostro rapporto con l’ambiente incide nella diffusione delle malattiespiega ad Agi Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di Genetica molecolare del CNR-IGM di Pavia. «I fattori coinvolti sono molteplici: cambiamenti climatici che modificano l’habitat dei vettori animali di questi virus, l’intrusione umana in un numero di ecosistemi vergini sempre maggiore, la sovrappopolazione, la frequenza e rapidità di spostamenti delle persone».

Il sovrappopolamento (ndr, entro il 2050, secondo le Nazioni Unite, il 68% della popolazione mondiale dovrebbe vivere nelle aree urbane), la deforestazione, il consumo di suolo, l’aumento delle aree urbanizzate e l’intrusione dell’uomo negli habitat naturali, il disboscamento a favore di allevamenti e agricoltura intensivi ed estrazioni minerarie stanno portando al depauperamento degli ecosistemi e alla riduzione della capacità dei sistemi naturali di immagazzinare carbonio, creando a loro volta le condizioni per la diffusione di agenti patogeni.

Il cambiamento climatico aggrava la situazione, con un impatto diretto sulla sopravvivenza dei microbi nell’ambiente. Alcuni effetti sono già visibili come dimostra lo spostamento di diversi generi di zanzare (tra cui le Anopheles e le Aedes, vettori di malattie come la febbre gialla, il dengue, lo zika) verso le zone tropicali di alta quota dove prima erano assenti, o di zecche presenti nelle zone alpine a causa delle temperature invernali più elevate.

Inoltre, gli agenti patogeni stanno mutando geneticamente man mano che si evolvono, diventando resistenti anche ad antibiotici, antimicotici, antiretrovirali e antimalarici, spesso a causa dell’uso improprio di questi farmaci da parte di persone e veterinari. Questo consente loro di sfruttare nuovi ospiti e sopravvivere in nuovi ambienti.

Studi suggeriscono che le epidemie diventeranno più frequenti man mano che il clima continua a cambiare, scrive il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (UNEP). L’OMS ha individuato sei delle otto malattie indicate come quelle prioritarie su cui fare ricerca. Entro il 2080, il riscaldamento globale estremo potrebbe esporre 1 miliardo di persone a malattie trasmesse dalle zanzare in regioni precedentemente non colpite come l’Europa e l’Africa orientale, secondo il Rapporto sui rischi globali del World Economic Forum.

Cosa fare?

David Quammen, autore del libro “Spillover. L’evoluzione delle pandemie”, spiega in un’intervista a Il Manifesto che se vogliamo gestire future epidemie dovremo cambiare prospettiva e pensare a soluzioni che tengano conto del fatto che viviamo in ecosistemi delicati di cui l’uomo fa parte e non è estraneo. La soluzione non è ovviamente uccidere i pipistrelli, ma lasciarli in pace, perché i nostri ecosistemi hanno bisogno di loro: sono importanti bioindicatori, essenziali per il mantenimento di determinati ecosistemi, come i tropici e i deserti, attraverso la dispersione dei semi e l’impollinazione.

«Dobbiamo trovare il modo di vivere in equilibrio con la natura. I virus hanno convissuto con gli animali selvatici per millenni, la loro presenza non è niente di nuovo; quello che è cambiato è il modo in cui noi interagiamo con la fauna selvatica: crescita demografica, urbanizzazione, sfruttamento intensivo delle risorse naturali e distruzione dell’ambiente hanno portato l’uomo più che mai in stretto contatto con la fauna e reso più facile il salto di specie dei virus», dice a Valigia Blu Ilaria Di Silvestre, capo-programma per la fauna selvatica presso Eurogroup for Animals.

La strada da seguire è quella di «maggiori investimenti pubblici, di più istruzione pubblica, finanziamenti adeguati per gli istituti come lo statunitense Centres for Disease Control and Preventing, e organizzazioni equivalenti sparse per il mondo», spiega ancora Quammen in un’intervista a NPR (qui nella traduzione su Il Tascabile). «Dobbiamo formare scienziati che diventeranno cacciatori di virus, che vadano in quelle grotte, in quelle foreste, facendo il lavoro sporco e che poi tornino nei laboratori a fare il lavoro d’indagine, per aiutarci a identificare questi virus. E abbiamo bisogno che le istituzioni sanitarie pubbliche siano pronte per affrontare le epidemie».

Il modo migliore per prevenire nuovi focolai, dicono gli specialisti ormai da decenni, è “One Health Initiative”, un programma mondiale, che coinvolge centinaia e centinaia di scienziati e altri professionisti e si basa sull’aspetto ecologico delle malattie: la salute umana, animale ed ecologica sono indissolubilmente collegati e devono essere studiate e gestite in modo olistico. Secondo quest’approccio, le pandemie vanno affrontate con una strategia multidisciplinare, tenendo insieme epidemiologia, scienze del clima, salvaguardia delle specie, comunicazione del rischio.

In futuro, e in una società sempre più connessa, la lotta alle epidemie non sarà più di esclusiva responsabilità degli esperti della sanità pubblica, ma richiederà la collaborazione dei leader sia pubblici che privati, nonché l’aiuto della popolazione in generale. «L’Unione Europea ha proprio in questi giorni l’opportunità di cambiare le cose e dimostrare di aver imparato questa dolorosa lezione. La nuova Strategia Europea per la Biodiversità fino al 2030 attualmente è in via di definizione da parte della Commissione Europea come componente cruciale dell’EU Green Deal», commenta Ilaria Di Silvestre.

Di certo c’è che la strada è ancora lunga, la ricerca richiede tempo e spesso i risultati non sono – non possono essere – sotto gli occhi dei più.

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Secondo diversi studi pubblicati in questi anni, il 60% delle malattie infettive e il 75% di quelle emergenti che colpiscono gli esseri umani sono zoonosi: cioè provengono dagli animali, in oltre due terzi dei casi da fauna selvatica, e arrivano all’uomo tramite un salto di specie.
Il salto di specie può avvenire anche dopo che i virus per tantissimi anni, anche millenni, si sono trasmessi e replicati all’interno di specie serbatoio senza infettare l’uomo e senza avere effetti devastanti. Ad esempio, si stima che i primi coronavirus siano nati tra i 10mila e i 300 milioni di anni fa e, nel caso del nuovo coronavirus, alcuni suoi lontani progenitori sembrano risalire a 140 anni fa.

L’ospite intermedio che ha consentito il salto di specie e la diffusione della SARS nel 2002 si pensa fu lo zibetto, un animale selvatico di media taglia, venduto nei mercati selvatici cinesi insieme ai pipistrelli da cui il virus era probabilmente partito. Otto anni prima, nel 1994, in Australia, 13 cavalli e il loro istruttore morirono a causa dell’Hendra virus. In questo caso i vettori intermedi erano stati i cavalli che si erano infettati dopo essere entrati in contatto con le feci della volpe volante (o il pipistrello della frutta).
Nel 2005, in Malesia, ci fu un’epidemia di nipah. Anche in questo caso il virus aveva avuto origine dalle volpi volanti. È probabile che un pipistrello abbia lasciato cadere un pezzo di frutta in un porcile in una foresta. I maiali s’infettarono e fecero da amplificatore del virus, consentendo poi il salto di specie nella forma evoluta nell’uomo. Su 276 persone contagiate in Malesia, 106 morirono e molte altre hanno poi sofferto di disturbi neurologici permanenti e paralizzanti.
Anche nel caso della MERS, la sindrome respiratoria del Medio Oriente, rilevata per la prima volta in Arabia Saudita nel 2012 e propagatasi negli anni successivi in 25 paesi (con quasi 3000 casi di contagio e oltre 850 morti), si ritiene che il virus si sia originato nei pipistrelli e poi trasmesso, in un’era remota, ai dromedari. E sempre i pipistrelli della frutta sono tra i possibili ospiti serbatoio di Ebola, rilevata per la prima volta nel 1976 e che ha visto una grande diffusione tra il 2014 e il 2016 nell’Africa occidentale e dal 2018 nella Repubblica Democratica del Congo.

La colpa dei contagi, ovviamente, non è degli animali, né dei pipistrelli, ma dell’uomo, spiega Simone Re su Rivista Micron: “Prelevare animali selvatici dal loro ambiente naturale e indurre artificialmente un’elevata concentrazione di individui di diverse specie esotiche in uno spazio limitato crea le condizioni ideali per la trasmissione di zoonosi”. Ma questo, aggiunge Re, è solo uno degli esempi di alterazione degli habitat e delle conseguenze poi imprevedibili generate dal contatto dell’uomo con animali selvatici ed ecosistemi vergini: “Diversi studi mostrano che la deforestazione aumenta il rischio di esposizione ad agenti patogeni, come il virus Nipah, il virus Lassa, la malaria e la malattia di Lyme, amplificandone la diffusione”.

Qualsiasi malattia infettiva emergente negli ultimi 30 o 40 anni è stata causata dall’invasione da parte dell’uomo di aree selvatiche e dai cambiamenti demografici, affermava al New York Times già otto anni fa Peter Daszak, zoologo consulente dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e presidente di EcoHealth Alliance, un’organizzazione che studia le connessioni tra salute umana e fauna selvatica.

La deforestazione e la creazione di allevamenti intensivi di maiali che si cibavano degli scarti di frutta lasciati cadere dai pipistrelli ha creato le condizioni per il salto di specie del virus nipah, mentre la frammentazione delle foreste ha consentito densità di animali inusuali e convivenze forzate tra specie che altrimenti si incontrerebbero raramente, favorendo la diffusione dell’ebola. E sempre la frammentazione degli habitat ha agevolato la diffusione di patologie molto pericolose per l’uomo come la borrelliosi di Lyme, la meningoencefalite virale e la febbre congo-crimea, i cui serbatoi sono diverse specie di piccoli roditori. La riduzione delle foreste nell’America settentrionale ha portato all’allontanamento di lupi, volpi, gufi e falchi e all’incremento di cinque volte dei topi dai piedi bianchi. Questi roditori, spiegava alcuni anni fa al New York Times Richard Ostfeld, studioso della malattia di Lyme, producono un numero enorme di ninfe infette, uno stadio delle zecche portatrice di queste patologie.
Uno studio di alcuni anni fa, infine, aveva mostrato che un aumento della deforestazione del 4% in Amazzonia aveva portato a un incremento del 50% dell’incidenza della malaria perché si era creato un mix di luce solare e umidità che faceva prosperare le zanzare veicolo della malattia.


20 risposte a "Per lettori volenterosi…"

  1. Estremamente interessante e ricco di spunti. Fa pensare (e di questi tempi non è niente male)

    Nella seconda parte ho faticato un po’ a leggere per colpa delle risate post “piccioni tornati al colore naturale”. 🤣

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  2. Venerdì parlerò di Umanità e Bestialità, ricollegandomi al commento precedente.
    Comunque tutto conta a cambiare un equilibrio, sia il grosso evento (la pandemia) sia un lavoro mirato fatto da un po’ di tempo a questa parte.

    A volte le cose avvengono con gradualità, a volte è come per gli elettroni, che spostano la loro orbita in base all’energia assunta e lasciano un “enorme” spazio tra sè e il nucleo, così può avvenire: non è tutto un piano inclinato, a volte c’è proprio un gradino! 🙂

    PS: lettura interessante e bella tosta (lunghetta), ma questo l’avevo intuito dal titolo! 😉

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    1. Sì, tosta, e calcola che ho praticamente dimezzato il long-form.
      Mi fido della fonte, però non al 100%. Non foss’altro perché gli articoli hanno molti errori, e qualche assurdità quando traducono dall’inglese. Quindi l’ho editata più che potevo.
      Non capisco bene la tua risposta (lavoro mirato? fatto da chi?). So solo che tutta ‘sta complessità a volte ti schiaccia. Però, malgrado le mie lacune sull’argomento, direi che ormai la “gradualità” non ce la possiamo più permettere. Sulle soluzioni… boh, speriamo bene!

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      1. Per lavoro mirato intendevo dire che la sensibilità generale è aumentata da qualche anno a questa parte e questo, per piccolo che sia, qualche effetto ce l’ha… sul lungo periodo, soprattutto.
        Io non ho soluzioni, però credo che i miracoli che ci stanno propinando non esistono e porteranno a problemi, magari diversi, ma non necessariamente meno importanti.
        Non sono un esperto nemmeno io, ma anche io, come tanti, ho opinioni e, alla luce dei fatti, valgono tanto quanto quelle degli opinionisti che si vedono/leggono in giro! 😉

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        1. Molto più che da qualche anno. Non dirmi che ci voleva Greta, eh…
          Ma chi ha le soluzioni??? Appunto, i miracoli non esistono.
          Pensa, io invece sto lì col fucile puntato, gli occhiali e il mio (forse un po’ danneggiato?) spirito critico, ad ascoltare gli opinionisti. A volte sono scienziati, a volte giornalettisti, a volte… uh, un sacco di cose. Ma io – anche se magari pubblico articoli un po’ esagerati – non mi bevo niente di ciò che dicono. Vado a cercare. “Io ti vengo a cercare”, mondo!

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  3. Come creare l’ennesimo problema mondiale, esagerarlo oltre ogni misura facendolo passare per ciò che non è per trasformarlo poi in una mangiatoia quasi globale, perché alla fine è questo il succo di tutto. Qualcuno ci ha visto enormi possibilità di guadagni e quindi spinge per le cagate “verdi” senza alcun criterio né logica.

    Discorso per chi dice che meriteremmo l’estinzione: chi dice queste cose ne parla sempre come se non appartenesse al genere umano, alchè io dico a costoro: “Se ci tenete tanto all’ambiente e dite che l’uomo è il vero virus da estirpare, cominciate voi a dare il buon esempio. La natura e gli animali vi ringrazieranno sentitamente”.

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