
Le grandi crisi economiche: rischi e opportunità dei piani di uscita.
di Marcello Bianchi e Francesca Adrower
Le grandi crisi economiche offrono quanto meno l’opportunità di progettare la ripresa. Se infatti in queste situazioni c’è unanimità di vedute sull’opportunità di stimolare la crescita economica con risorse straordinarie, le diversità di opinioni si manifestano sugli obiettivi e sugli strumenti da impiegare e quindi sul progetto di ripresa.
L’esperienza delle crisi passate mostra però che l’efficacia dei risultati non dipende soltanto dalla qualità del progetto, ma anche dal complesso di fattori, in parte strutturali, in parte congiunturali, che caratterizzano i diversi sistemi-paese nella fase in cui dovrebbe innestarsi la ripresa.
Tornano quindi di attualità quelle che l’economia classica, a partire da Adam Smith, ha chiamato “le cause della ricchezza delle nazioni”, cioè quelle condizioni che avrebbero favorito il processo di accumulazione e di produzione che caratterizza il moderno capitalismo. In generale, ci si è riferiti al complesso di queste condizioni definendole “la cultura” di un popolo, di un’area geografica quando non a un’intera civiltà.
Alcune caratteristiche di fondo di questa “cultura” spiegherebbero perché alcune entità siano state in grado di cogliere le opportunità, in teoria disponibili per tutti, per promuovere e sostenere un processo di crescita economica.
Un recente articolo dell’Economist fornisce una ricostruzione, sintetica quanto efficace, dei grandi tentativi messi in atto da quella che viene chiama l’economia culturale per rispondere al programma che Thomas Malthus, uno dei primi grandi economisti, poneva agli inizi dell’800: “la causa della ricchezza e della povertà delle nazioni è il grande obiettivo di tutte le indagini di politica economica”.
Per spiegare le grandi divergenze tra i Paesi ricchi e quelli poveri, i primi economisti si concentrarono proprio sulla cultura. Adam Smith, l’autore di “La ricchezza delle nazioni”, indagò i modi in cui la cultura sosteneva o ostacolava il capitalismo. Karl Marx, qualche decennio più tardi, considerava la cultura del “dispotismo orientale” la ragione alla base del mancato affermarsi del capitalismo in Asia.
Le speculazioni di Smith, Marx e altri erano spesso vaghe nel definire gli elementi culturali che potevano influire sulla crescita economica. Il testo di Max Weber “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, pubblicato nel 1905, le rese più concrete, sostenendo che i protestanti, in particolare i calvinisti, erano stati in grado di promuovere l’emergere del capitalismo grazie alla dimensione etica che attribuivano al lavoro.
A metà del XX secolo, le tradizionali spiegazioni “culturali” iniziarono a mostrare i loro limiti. La rapida ascesa dell’economia giapponese negli anni ’50, e successivamente delle “tigri” asiatiche, mise in discussione la nozione marxista-weberiana della cultura occidentale come unica via verso l’industrializzazione.
Tuttavia, un certo interesse per la cultura rimase vivo.
Forse il testo più influente per la rinascita dell’economia culturale fu “Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy” (Far funzionare la democrazia: tradizioni civiche nelle regioni italiane), scritto da Robert D. Putnam nel 1993. Egli cercò di capire il motivo per cui per molti decenni il nord-Italia era stato più ricco del sud, avvalendosi del termine passe-par-tout “capitale sociale”. La gente del sud era orgogliosamente leale nei confronti della famiglia, ma più diffidente nei confronti del mondo esterno, mentre il nord era più aperto ai rapport esterni. Secondo questa teoria, quest’ultimo atteggiamento contribuiva a un miglior governo locale e a transazioni economiche più efficienti, che a loro volta producevano maggiore ricchezza.
Sviluppando questa impostazione, Luigi Ghiso, Paola Sapienza e Luigi Zingales, in una ricerca del 2004 sempre dedicata all’Italia, hanno sostenuto che nelle aree dove non c’è fiducia nei rapport esterni alla famiglia può essere più difficile creare grandi organizzazioni commerciali che possano beneficiare delle economie di scala e adottare le nuove tecnologie.
In “A Culture of Growth” (“Una cultura della crescita. Le origini dell’economia moderna”), del 2016, Joel Mokyr della Northwestern University individua nel “principio di contestabilità” la ragione per la quale il processo di industrializzazione aveva funzionato in alcuni Paesi e non in altri. Organizzazioni come la Royal Society, fondata al Londra nel 1660, erano dei “forum” dove si realizzava un proficuo scambio di idee, anche duro, sulle scoperte dei diversi membri. Il confronto scientifico, che così si sviluppava, preparò il terreno per l’eccezionalismo dell’economia europea. Nulla di comparabile accadde in alter parti del mondo.
Parallelamente, un numero crescente di economisti ha cominciato a porre l’attenzione sul ruolo delle “istituzioni”, intese come sistemi giuridici e normativi, nella promozione della crescita economica. Alcuni economisti culturali sostengono che il risalto dato alle istituzioni provi il loro argomento: cosa sono le istituzioni se non il prodotto di norme, valori e preferenze?
Le opinioni divergenti tra cultura americana e cultura europea sulle cause delle disuguaglianze economiche, per esempio, possono aver svolto un ruolo importante nello spiegare perché gli stati sociali europei sono più generosi di quelli americani. Ma in molti casi, le differenze tra le istituzioni possono non aver nulla a che vedere con la cultura di un Paese. A volte si tratta solo di “fortuna”, ossia di fortuite coincidenze storiche.
Mokyr mostra che l’Europa, frammentata in molti Stati, era il contesto perfetto per l’innovazione: intellettuali che mettevano in discussione le verità generalmente accettate e provocavano reazioni repressive delle Autorità potevano trasferirsi altrove (Thomas Hobbes scrisse il “Leviatano” a Parigi).
Al contrario, in Cina, sostiene ancora Mokyr, i liberi pensatori avevano scarse vie di fuga.
Secondo questo approccio, i sistemi degli europei non erano stati pianificati, né erano il frutto inevitabile di un’attitudine culturale: nacquero e basta.
L’Economist chiude il suo articolo con un interrogativo: gli economisti sono oggi più capaci di rispondere alla questione fondamentale della loro scienza, cioè quale sia la causa della ricchezza e della povertà delle nazioni? Al di là delle certezze semplicistiche di Weber, tutto ciò che quasi due secoli di economia culturale ci può dire è che sembra probabile che alcuni Paesi siano ricchi e altri siano poveri a causa di una combinazione di incentivi economici, cultura, istituzioni e opportunità, ma quale sia il fattore decisivo resta da individuare.
Se tali questioni sono state di solito affrontate, con esiti non conclusivi, per interpretare l’evoluzione della “ricchezza delle nazioni” in un’ottica di lungo periodo – spesso con un orizzonte secolare – esse possono assumere una maggiore rilevanza concreta in fasi più specifiche come quelle dell’uscita dalle crisi.
In questi casi, il complesso di fattori cui la teoria ha dato il nome di “cultura” può risultare decisivo per trasformare le opportunità offerte dal massiccio ammontare di risorse finanziarie messe a disposizione per superare la crisi in effettivo e duraturo progresso economico.
Ciò è tanto più vero nel contesto dell’Unione Europea che vede, per la prima volta, una gestione unificata dell’avvio del processo di sostegno al superamento della crisi, mediante la costituzione centralizzata di un fondo di risorse economiche che spetta ai singoli Stati trasformare in progetti; e una gestione coordinata delle fasi successive, in quanto l’assegnazione delle risorse avverrà gradualmente sulla base di una progressiva verifica dei risultati ottenuti. La regia europea dell’intero processo, rappresenta sicuramente un elemento di forza, perché conferisce sostanza a un processo di unificazione europea che supera la mera definizione delle regole di un mercato integrato per promuovere una vera politica economica comune (quanto meno nella predisposizione delle risorse e nell’individuazione degli obiettivi).
D’altra parte, essa presenta il rischio di generare effetti asimmetrici nei singoli Paesi, cui è affidata la responsabilità di definirne l’applicazione, attraverso l’individuazione dei progetti specifici e la dimostrazione dei risultati effettivamente conseguiti che ne consentono lo sviluppo.
La vera sfida per il nostro Paese, una volta auspicabilmente conclusa quella preliminare di approvazione del progetto Next Generation EU, sarà quindi quella di definire il progetto per impiegare le risorse europee, ma soprattutto di assicurare che tale progetto si traduca in risultati concreti. Ciò richiede che, non solo che si assicurino canali efficaci di destinazione delle risorse, compito di per sé già gravoso, ma anche che si promuova la loro effettiva valorizzazione, che sarà determinata in gran parte dal contesto sociale, economico, politico e giuridico, per usare i termini dell’Economist, dalla “cultura” del sistema italiano. Cultura che purtroppo è alla base della pluridecennale stagnazione economica e del fallimento dei vari tentativi di riforma, sia sul piano istituzionale sia sul piano della politica economica, volti a stimolare la crescita della “ricchezza della nazione”. Se è vero che questa “cultura” è in gran parte il risultato di fattori strutturali con radici antiche e non facilmente modificabili, ciò non toglie che vi siano aspetti meno sclerotizzati su cui è possibile agire per migliorare la capacità del contesto di valorizzare le opportunità del piano europeo di sostegno allo sviluppo.
Può essere utile a questo scopo rifarsi alle fasi più mature delle riflessioni economiche sull’influenza della cultura sulla crescita della ricchezza citate dall’Economist, quelle che valorizzano l’importanza delle istituzioni. Istituzioni che però devono essere intese non solo come l’insieme del quadro giuridico e delle regole, ma come il complesso delle organizzazioni sociali che si costituiscono e interagiscono tra loro, che certamente sono condizionate dalla cultura generale nel quale si sviluppano, ma che sono anche in grado di modificarla, fino, in qualche modo a ridefinirla.
Ciò vuol dire che il processo di gestione della ripresa dalla crisi non può essere relegato in un rapporto esclusivo tra uno Stato “datore” di risorse e una platea indifferenziata di “prenditori”, ma che si colga l’occasione per una rivitalizzazione del tessuto istituzionale del Paese, senza il quale ogni ripresa, pur generosamente finanziata, rischia di essere compromessa.